L 'attuale crisi di governo è nata e si sta consumando intorno alla gestione dei fondi europei, quei 209 miliardi del Recovery fund che stanno alla base del programma della Next Generation EU. Nei giorni scorsi lo hanno fatto notare molti commentatori ponendo in evidenza come il casus belli che aveva innescato la contestazione di Matteo Renzi verso Conte e la sua decisione di lasciare la maggioranza ruotava proprio intorno alla gestione del Recovery fund.

Il problema politico è a chi spetti la decisione di distribuire e controllare i 209 miliardi in arrivo dall'Europa, con quali modalità e alla luce di quale piano di investimento. Eppure in questa fase è calato un paradossale silenzio proprio riguardo la questione stessa sulla quale la crisi si è innescata, lasciando invece molto più spazio alla disputa su poltrone e incarichi ministeriali.

A prescindere dalla rivolta di Matteo Renzi, in realtà il piano mette brutalmente sotto i riflettori le contraddizioni esistenti all'interno della maggioranza. Renzi ha innescato la crisi subito dopo che il Consiglio dei ministri aveva approvato il progetto di una nuova struttura, controllata da Palazzo Chigi, alla quale sarebbero stati attribuiti i poteri di gestione sui 209 miliardi. Sarà stato un pretesto, ma in realtà non è stato solo il leader di Italia viva a trovare fuori luogo il tentativo del premier di accentrare il controllo dei fondi, anche se, a sua scusante, quella struttura di comando era stata concordata con la Commissione dell'Unione Europea.

P ure Zingaretti inizialmente aveva condiviso la critica. Di rinforzo, c'è un interrogativo inespresso che dà il senso di questa crisi di governo, che è anche parte essenziale del rebus che il presidente Fico ha dovuto risolvere col suo incarico.

Osserva ad esempio Angelo Panebianco che il problema si pone nei seguenti termini: «come ottenere un disarmo bilanciato e simmetrico tale per cui nessuna delle forze politiche in campo possa avvantaggiarsi troppo dalla gestione dei fondi europei in arrivo? È evidente che tutti, potendo, vorrebbero controllare quei fondi». Chi ne disporrà, infatti, potrà ottenere grandi vantaggi, sia d'immagine, sia di benefici materiali per la propria parte politica. Ciascuno, come è naturale, preferirebbe gestirli in proprio o, per lo meno, compartecipare alla gestione. Può essere indotto a rinunciarvi solo se si convince che anche gli altri non possano avvantaggiarsene.

E intanto si continua a discutere sugli assetti essenziali del piano italiano: chi lo gestisce, a quali riforme esattamente sarà associato, sulla base di quali piani finanziari e di quali obiettivi? La politica dà per scontato che i soldi da Bruxelles alla fine arriveranno, ma si sorvola sui presupposti perché questo accada. Per risolvere realmente la crisi di governo, al di là dei numeri in Senato, occorrerebbe fare chiarezza su questi punti piuttosto che sulla conta dei potenziali “responsabili”, prendendo atto che la Commissione europea richiede che, nel Recovery plan, i governi presentino anche un piano plausibile di finanza pubblica.

Questa condizione, che originariamente non esisteva, è stata inserita dalla Commissione pensando proprio al caso italiano e riflette una sfiducia crescente proprio su quanto sta accadendo in Italia. Non riguarda una nuova richiesta di politiche di austerità. Le regole di bilancio europee restano sospese, non stanno tornando in vigore; di fatto nessuno pretende che l'Italia riduca il deficit nel 2021. Ma, se vuole i soldi del Recovery, il futuro governo dovrà indicare come realisticamente far rientrare il debito di oggi nei prossimi anni.

Ora, aggravata la crisi con l'affossamento del Conte Ter, servirà una sorta di cabina di regia permanente con i leader dei partiti dove prendere collegialmente le scelte cruciali, a cominciare proprio dai miliardi del Recovery fund. A meno che Draghi oggi non accetti l'incarico: a quel punto la prospettiva cambierebbe radicalmente.

BENIAMINO MORO

UNIVERSITÀ DI CAGLIARI
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