Vandenbroucke, l'ultima vittima del ciclismo malato
di Carlo Alberto MelisPer restare aggiornato entra nel nostro canale Whatsapp
L’ultimo anello di una catena maledetta. Frank Vandenbroucke: qualunque sia la causa della sua morte a Saly, in Senegal, ha passato la linea che separa il mondo reale dal purgatorio dei ciclisti. Ora è accanto a Marco Pantani, il Pirata, allo spagnolo Josè Maria Jimenez, el Chaba. Coloro dei quali giurava che non avrebbe fatto la fine. Forse lo diceva proprio per esorcizzare quel destino che sentiva proprio, il bel Frank, che quando a 19 anni passò professionista prometteva tanto da far pensare ai belgi che fosse nato un nuovo Eddy Merckx. E quando vinse la Parigi-Bruxelles a 21 anni e la Liegi-Bastogne-Liegi (la Doyenne, la corsa che non si vince per caso) a 24, sembrò che quelle profezie fossero destinate ad avverarsi.
LA FAMA Bello, biondo, magro, ciclista (in Belgio vuol dire più che essere calciatore in Italia) e vincente. Roba da far perdere la testa, roba da perdercela. I tifosi (e le tifose) impazzivano per lui, che molti anni più tardi, durante uno dei tanti periodi di ripresa dal baratro in cui precipitava, scrisse un’autobiografia dal titolo psichiatrico e ironico: ''Io non sono dio''. Ma nel ciclismo, soprattutto se si è dotati, è facile finire nelle grinfie degli stregoni, di chi vuol venderti l’invincibilità da iniettare per endovena. VDB, come veniva chiamato nell’ambiente, cadde nel tranello: volle essere più di quel tantissimo che già era. Finì nel gorgo del doping, che non significa soltanto barare, imbrogliare e rischiare una squalifica. Significa, purtroppo, molto di più, per un ragazzo di vent’anni. Significa sviluppare un senso di onnipotenza, espandere il proprio ego al di sopra di ogni altra cosa, perdere il contatto con la realtà di un mondo, quello sportivo, nel quale nessuno può permettersi di non frequentare la sconfitta. E quando non c’è più il doping, ecco il suo più terribile e mortifero surrogato: la cocaina, la droga che rende felici e sicuri di sé. Da un baratro all’altro, sembra di rileggere la tragica spirale che avvolse Marco Pantani.
IL DESTINO Marco e Franck, 34 anni e non uno di più, vittorie e coca, sempre più giù, senza rinunciare all’idea - folle - di poter ricominciare da zero, di tornare in cima come prima, di essere ancora sotto le luci dei riflettori. Sicuri di potercela fare almeno quanto lo erano i loro fornitori di poterli raggiungere e rifornire di quella sostanza mortale, dolce come i nomi delle loro tombe: il Residence delle Rose di Rimini, per Pantani, l’hotel La maison blue, per Vandenbrouke. E attorno, il pianto dei genitori, la disperata impotenza degli amici, l’ipocrisia del mondo del ciclismo nel quale molti sono troppo impegnati a salvare se stessi per preoccuparsi di chi muore. E pensano che a loro non toccherà mai. ''Non farò la fine di Pantani'', diceva Frank…