Non sono stupita. Sono più probabilmente impaurita dal vuoto ideologico che sembra introdurre ed accompagnare una campagna elettorale che sarebbe stato lecito attendersi, invece, come caratterizzata da contenuti rilevanti calibrati sulle esigenze pratiche di un Paese oramai in ginocchio per essere stato bruscamente interessato da una crisi economica che appare inarrestabile la quale, per giunta, inevitabilmente, e conseguentemente, ne ha compromesso il tessuto sociale già piuttosto fragile sul piano dei rapporti interpersonali.

Nonostante la condizione di “emergenzialità” esistente ed emergente, siamo costretti, nostro malgrado, a dover digerire “gli occhi di tigre” di Enrico Letta, quelli “della gentilezza e della generosità” di Silvio Berlusconi che vorrebbero fargli incredibilmente da contraltare, le pretese aspirazioni neo-atlantiste dai marcati accenti anti-europeisti di Giorgia Meloni, che vorrebbe ancora sostenere l’Ucraina, curandone la ricostruzione all’esito del conflitto contro la Russia di Vladimir Putin malgrado la gran parte degli italiani paia desiderare un marcato cambio di rotta sul punto, oltre che le trasformazioni in senso “naif” di Matteo Salvini, il quale, dal canto suo, se per un verso vorrebbe aspirare ad offrire di sé l’immagine traslata di Uomo delle Istituzioni, maturo e responsabile, pronto ad assumersi le responsabilità del Governo che verrà, per altro verso, continua irrimediabilmente a tradire quel proposito attraverso la propria incapacità a lasciar andare “tematiche” per così dire “sicure”, quale quella sui migranti, dagli accenti marcatamente populisti per essere, quelle stesse tematiche, forse intese quale “ancora di salvezza” rispetto ad una metamorfosi alla quale probabilmente non è ancora pienamente preparato.

Se è vero, come è vero, che siamo il Paese della campagna elettorale permanente, allora è altrettanto vero che siamo divenuti, per converso e gioco-forza, anche il Paese dell’astensionismo radicato quale risposta-conseguenza ai fenomeni  largamente diffusi di de-politicizzazione delle masse, consapevoli dell’inutilità dell’espressione del voto per essersi ridotto, quel voto, alla stregua di marginale componente utilitaristica di una “lavagna” segna-punti valida solamente a garantire la rituale ed agognata spartizione di poltrone e privilegi all’interno della “Stanza dei Bottoni”.

Intendiamoci: l’Italia è sempre stata il Paese delle contrapposizioni e delle contraddizioni ideologiche, il Paese dove hanno potuto convivere per mutuo consenso, sia l’atlantismo che l’europeismo accompagnati, anni orsono, da una offerta politica detta “micro gollista” che gli aveva consentito, allo stesso tempo, di acquistare il petrolio russo e commerciare, più in generale, con l’Unione Sovietica, pur continuando ad essere la più importante tra le porta-aerei americane sul Mediterraneo.

Il riferimento è tutt’altro che estemporaneo e vale, evidentemente, a far comprendere quanto possa essere tiepido e privo di sostanza l’atlantismo invocato da Giorgia Meloni solo per accreditare la sua potenziale “premiership” a livello internazionale. Intanto, perché, nella circostanza contingente, il continuare a propugnare una “fedeltà” acquiescente e servile alla Nato, considerandola come cardine indispensabile del sistema internazionale generalmente inteso, come pure il propugnare l’importanza dell’appartenenza all’Unione Europea, da sempre avversata nella sua attuale consistenza, quale obiettivo irrinunciabile della propria politica estera, appare oltremodo aleatorio trattandosi, con buona verosimiglianza, della visione propagandistica auto-riferita di una leader “in cerca d’autore”, che appare desiderosa unicamente di accreditare se stessa a tutto discapito delle esigenze reali e quotidiane di un Paese ridotto alla fame.

Quindi, perché, la “svolta” neo-atlantista di Giorgia Meloni (del cui pragmatismo fin d’ora non si sarebbe potuto mai dubitare), anche a tutto voler considerare, comunque parrebbe impattare, contraddicendole, con le scelte di politica estera a suo tempo portate avanti da Silvio Berlusconi nel corso delle sue esperienze di Governo, le quali hanno avuto il merito (ma per tanti il de-merito) di offrire un terzo polo alle dinamiche della politica estera italiana, ossia l’impianto di una solida relazione privilegiata con la Russia di Vladimir Putin, che aveva avuto il pregio, secondo alcuni, di aver portato avanti le ideologie micro-golliste tipiche degli anni della cosiddetta “Guerra Fredda”.

Infine, perché l’incondizionato appoggio al Popolo Ucraino garantito da Giorgia Meloni, del tutto condivisibile sul piano umanitario (ma solo su quello) trattandosi di una nazione ridotta oramai ai minimi termini in nome della lotta ad un diritto all’autodeterminazione esistente solo sul piano ideologico e che, ad oggi, parrebbe aver perduto, tanto sui media, quanto sul piano pratico, la rilevanza e l’attenzione riservatagli nei mesi appena trascorsi, sembrerebbe apparire (questa è l’impressione emergente) quale riflesso condizionato dell’assenza di ricette economiche valide a “ricostruire” quel che resta del proprio Paese di riferimento il quale, semmai, sembrerebbe chiamato ad esprimere un voto utile a favorire unicamente un determinato orientamento sul piano della politica estera.

Diciamo la verità: la confusione è tanta e l’offerta politica, da ambo le coalizioni, tutt’altro che pregevole per non riuscire, i vari partiti politici in contesa, a delimitare il realistico campo d’azione nel contesto del quale sarebbero fortemente chiamati ad intervenire, semplicemente individuato, da parte di qualunque cittadino responsabile, nel raggiungimento dell’indipendenza energetica, che certo non può essere conseguita dall’oggi al domani (e di qui l’importanza di conservare un atteggiamento di neutralità nei confronti del conflitto russo-ucraino), nel controllo del cosiddetto “paniere” incidente sui costi del carrello della spesa, nell’inversione del rapporto patologico rappresentato dalle dinamiche sbilenche regolanti l’offerta e la domanda del lavoro, nel contesto delle quali, a fronte dell’innalzamento della prima, non è riuscita a conseguire la attesa impennata della seconda per essere gravemente deficitaria e sotto-pagata.

Insomma: il 25 settembre si riapriranno le urne, ma anche a tutto voler considerare, esaminando le premesse della presente campagna elettorale, non riusciranno ad essere determinanti, né sul piano degli schieramenti, né sul piano dei programmi politici ridotti alla condizione della inconsistenza. Ma intendiamoci: se l’anti-fascismo di Enrico Letta, anacronistico sul piano ideologico, parrebbe sorprenderci, tutto sommato, e per converso, il richiamo non è totalmente estemporaneo perché in radice, sembrerebbe orientato ad offrire una risposta politica differente, sebbene poco utile nella circostanza, all’anti-comunismo che fu di Silvio Berlusconi quale complessa costruzione ideologica gradatamente arricchita di contenuti e simbolismi direttamente riconducibili al rifiuto dello statalismo in sé e per sé considerato nella sua dimensione negativa e di ogni sua conseguenza.

Né più né meno, entrambe, che forme latenti di delegittimazione degli avversari politici. Se poi abbiano un senso, e siano contrapposizioni ancora suscettibili di provocare le reazioni attese del popolo dei votanti, questa è altra questione. In un contesto umano e sociale disperatamente alla ricerca di soluzioni utili, l’ideologia fine a se stessa non sembrerebbe poter trovare l’approdo sperato: con buona pace, quindi, di Giorgia Meloni e di Enrico Letta, consapevoli di dover probabilmente gestire a due le future dinamiche dell’esecutivo e per ciò stesso “spaventati” rispetto alle gravose responsabilità che verranno.

Solo ed unicamente un rinnovato “nuovo miracolo italiano” (da chiunque interpretato e rivisitato sulla base delle ricette economiche portate avanti a suo tempo dall’accoppiata Tremonti-Berlusconi) che un tempo aveva costituito la sintesi propagandistica del fenomeno del “berlusconismo”, e che aveva rinvenuto il suo fulcro nel rallentamento delle politiche di contrasto all’evasione fiscale e nella misurata ponderazione di qualunque tracciabilità dei movimenti di denaro, oltre che nella mitigazione della pressione fiscale, potrebbe restituire dignità alla compagine politica italiana e, nel contempo, regalare un po’ di agognato “ossigeno” agli italiani ridotti allo stremo.

Perché non pensarci?

Giuseppina Di Salvatore

(Avvocato – Nuoro)

© Riproduzione riservata