C ommentando in rete il pensiero di un caro amico in “disterru”, avevo sentenziato che la politica era oramai morta. Intendevo che il suo ciclo diretto, così come lo avevamo inteso al massimo dell'autorità, per decenni, aveva smesso di offrire alla società la garanzia di crescita almeno pari all'importanza che ogni elezione suscitava nel dibattito pubblico.

Mi riferivo alle vicende politiche sarde, particolarmente offese da governi mai capaci di superare il limbo. Ogni tornata, infatti, esplodeva in profonde guerre fratricide puntualmente smentite dagli esiti reali, sempre distanti dalle promesse e clamorosamente poveri di risultati. Non mi limitavo a una polemica frecciata. Durante il mio primo lustro in Inghilterra, ho potuto approfondire l'analisi sulle vicende dell'indipendentismo. Proprio all'alba di una piccola rivoluzione - la Brexit - capace di suscitare tremori alla classe politica europea, sempre in bilico fra l'urgenza delle istanze locali e la necessità del dogma caro a Bruxelles.

Mi era oramai chiaro come la politica fosse una faccenda che riguardasse i popoli e le autonomie. E avesse bisogno di interpreti in grado, semmai, di farsi eroi e portavoce, soprattutto in prima istanza, dei bisogni primari e le attese espresse a più riprese dai sempre più agguerriti residenti.

Ogni volta che passo per Terralba (la mia seconda casa sarda) non manco una visita alla tomba del “piccolo” martire - Doddore - capace nella sua condotta funambolica di imprimere alla causa sarda un tono quasi epico. (...)

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