È trascorso un anno dall’avvio dell’azione militare speciale russa in danno all’Ucraina, un anno complesso sotto tutti i punti di vista. La voce delle piazze, da ultimo, stando a quanto si è potuto apprendere dai media, sembrerebbe lanciare una invocazione accorata e sentita per la pace, e se ancora perplessità parrebbero sussistere sulla opportunità di proseguire sulla strada dell’invio di armi all’Ucraina, maggiore risolutezza sembra riscontrarsi sul piano della necessità di scongiurare una qualunque escalation militare che possa condurre, sia pure involontariamente, per un verso ad un intervento diretto della Nato nel conflitto e, per altro verso, alla possibilità che taluna delle parti possa determinarsi all’utilizzo dell’arma nucleare. Tanto più allorquando, nessun Paese Membro, finora e fortunatamente, abbia subito una aggressione diretta idonea a sollecitare una risposta conseguente e collettiva.

Si avverte, insomma, e tutto considerato, un sentimento di profonda stanchezza dovuto probabilmente anche alla pesante crisi economica contingente. Se ancora indiscussa resta la solidarietà verso l’Ucraina e il suo popolo, comunque forte e convinta, tuttavia, anche la sensazione, reale o presunta, che l’adozione di sanzioni in danno alla Russia si riverberi, nella sostanza, e portafogli alla mano, anche in danno alle nostre economie, si fa strada con prepotente inquietudine.

La questione morale, e le sue motivazioni, parrebbero, a distanza di un anno dall’inizio del conflitto, cedere il passo al determinarsi di sia pur minime linee di frattura che, nell’assenza di interventi rassicuranti e financo risolutivi da parte dei vari Governi Europei, potrebbero acuirsi fino a determinare spaccature rilevanti nel sentire dell’opinione pubblica. Nel corso degli anni, a partire pure dalla fine della cosiddetta Guerra Fredda, era parso emergere un convincimento incrollabile: quello per cui la Comunità Internazionale, nella sua interezza compositiva, avesse fatto della “diplomazia preventiva” l’obiettivo primario e indefettibile del confronto nel contesto della risoluzione dei conflitti, nella convinzione, profonda e radicata che ogni degenerazione dei rapporti in conflitti armati fosse una opzione irrispettosa non solo dei principi consolidati del diritto internazionale, ma anche e soprattutto, una “offesa” alla dignità dei Popoli coinvolti. E se, ad oggi, la contrapposizione dialettica tra “aggressore” e “aggredito” continua a dominare il campo del confronto, tuttavia, e con buona verosimiglianza, sembra pure farsi avanti una perplessità tutt’altro che estemporanea. Quella per cui, probabilmente, non sarebbe troppo saggio sperare di procedere continuando a fornire armamenti, sia pure di carattere “difensivo” (se davvero si può operare una distinzione tra armi “offensive” e armi “difensive”), al popolo oppresso finalizzando l’azione all’ottenimento della capitolazione della Russia e alla sua conseguente disgregazione.

Nel quadro così brevemente delineato, una circostanza su tutte emerge con lapalissiana chiarezza: quella per cui l’Unione Europea e i suoi singoli Membri dovrebbero adottare una posizione di netta neutralità per poter dare sfogo, se così volessimo dire, alla necessità, oramai improcrastinabile, di riconoscere l’esigenza di una azione diplomatica convinta diretta a dirimere quello che oramai, e con il trascorrere dei mesi, è divenuto un conflitto armato che rischia di trascendere oltrepassando gli attuali confini.

Intendiamoci a scanso di equivoci: conosciamo le ragioni e i torti che caratterizzano le parti in conflitto, e la neutralità dei Paesi terzi, lungi dal potersi considerare nei termini di una fredda indifferenza verso le sorti del conflitto, rappresenta invece lo strumento chiave per favorire il dialogo e il confronto nell’ottica della pacifica definizione. Nel nostro essere Unione Europea, volendolo dire altrimenti, dobbiamo primariamente essere capaci di interpretare fino in fondo quella maturità relazionale che ci consenta di rendere attuale e financo realistico (perché sarebbe ora) quell’agognato “passaggio” dai principi del diritto internazionale cosiddetto della coesistenza al diritto internazionale della cooperazione tra Stati.

Se sia solo una pallida utopia non possiamo saperlo: di fatto si deve oltrepassare la linea miope dell’ottica bilaterale delle relazioni internazionali (Ucraina-Russia nella specie) a tutto vantaggio di una impostazione che riconosca che quanto accade anche sul piano interno di Paesi formalmente terzi, sul piano specifico dei diritti e dei doveri verso l’umanità tutta (la conservazione della pace e della stabilità), si riflette nei confronti dell’intera Comunità Internazionale. Fermo restando, chiaramente, l’insormontabile divieto dell’uso della forza e quello di ingerenza negli affari interni altrui, in quali sono anch’essi principi rilevanti.

Intanto perché sarebbe difficile porre in dubbio che l’obiettivo primario da raggiungere a qualsiasi costo debba essere il riconoscimento della “pace” quale valore universale utile a garantire la permanenza e la sopravvivenza della Comunità Internazionale. Quindi perché, posta siffatta premessa, la logica conseguenza dovrebbe risiedere nell’intraprendere, attraverso interlocutori specializzati, la via della ricerca di una soluzione pacifica della controversia in essere già contemplata e normata all’articolo 2, paragrafo 3 della Carta delle Nazioni Unite.

Infine perché, da tutto quanto osservato, sembra esistere una specifica responsabilità degli Stati tutti verso la Comunità Internazionale: responsabilità che impone la conservazione di equilibri inter partes al fine di evitare la degenerazione peggiorativa di un qualsivoglia conflitto. Non si può concepire una esigenza di pace di carattere unicamente territoriale, ma la si deve vivere e interpretare in un’ottica più complessa afferente la collettività tutta.

Giuseppina Di Salvatore

(Avvocato – Nuoro)

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