“Italia Europeista e Atlantista”, ma, stando alle indiscrezioni, permarrebbero le divergenze tra Roma e Washington sulla posizione di Pechino nell’ambito dell’articolato scacchiere internazionale. Questa la sintesi stringata dell’incontro, tenutosi sulla spiaggia di Carbis Bay, tra Mario Draghi, Presidente del Consiglio dei Ministri italiano, e Joe Biden, Presidente degli Stati Uniti d’America.

Eppure, tanto (poco) sembrerebbe bastato ai commentatori interessati per discorrere sul tema nei termini entusiasti di una ritrovata fase “atlantista” e “filo-americana” del Paese e dell’Europa. Mi domando quanto la circostanza possa dirsi fino in fondo realistica e fino a che punto il “dossier” Cina possa contribuire a rinsaldare una alleanza (quella tra Italia e Stati Uniti d’America) che, verosimilmente, proprio su siffatto “affare”, potrebbe rivelare “incrinature” e differenze importanti, sia in considerazione degli interessi geo-politici coinvolti, per taluni aspetti ampiamente divergenti, sia in considerazione dei “ruoli” antitetici reciprocamente e “rispettosamente” assunti dalle due potenze rappresentative dell’Occidente e dell’Oriente in ambito “relazionale”.

Intanto, perché Pechino non appare interessata, al momento, ad incidere sugli equilibri mondiali mediante la determinazione di variazioni significative dell’attuale “situazione esistente” da portare avanti attraverso il ricorso all’uso della forza armata ma, al contrario, appare piuttosto intenzionata ad agire in sordina manipolando “silenziosamente”, e a proprio vantaggio, tutte quelle singole aree geografiche (ricordiamo, al proposito, che non esiste regione geografica che non sia strategicamente importante per Pechino) caratterizzate da situazioni di debolezza politica interna e di interdipendenza economica reciproca che, di volta in volta, vengano in considerazione, proprio per queste loro caratteristiche, quali facili ed appetibili “obiettivi” espansionistici al fine di reimpostarne pacificamente gli equilibri in senso filo-cinese.

Quindi, perché l’atteggiamento politico or ora descritto, e che viene comunemente definito come “attivismo” cinese, non può che rinvenire la sua giustificazione e la sua ragion d’essere, per un verso, proprio nell’esigenza primaria di consolidare la propria presenza nazionale nelle aree strategiche di maggiore “prossimità” geografica attraverso il perseguimento di politiche stringenti di “annessione” economica e, per altro verso, nell’esigenza di ritagliare il tempo utile occorrente a ricercare il sostegno geopolitico per governare da Paese Leader il contraddittorio più impegnativo, ossia quello con Washington, rispetto alle dinamiche del quale la posizione italiana (specie dal punto di vista americano), appare comunque del tutto marginale e frammentaria per la “inidoneità” geopolitica del nostro Bel Paese ad incidervi significativamente in condizione di parità sul piano politico ed economico. Ancora, perché diversamente da quanto in tanti hanno manifestato di ritenere, la Cina, nel corso degli ultimi anni, sembra aver saputo coltivare pazientemente la linea diplomatica c.d. del “pluri-polarismo globale” finalizzata alla creazione di collaborazioni e “sodalizi” strategici, anche partitocratici, con le principali potenze mondiali anti-statunitensi al non recondito scopo di favorire la creazione di un nuovo “assestamento” politico ed economico internazionale da condurre e portare a termine all’insegna delle politiche di cosiddetto “potere morbido” contrapposto al “potere forte” tradizionalmente adottato dall’Occidente, ed ispirate alla “compartecipazione” e al “rispetto”,  quali capisaldi ufficiali delle relazioni estere orientali volute ed inaugurate dal freddo e lungimirante Xi Jinping.

Infine, perché l’ulteriore e mai scontato “dinamismo” cinese nei confronti anche della Mosca di Vladimir Putin ha finito con il collidere in maniera sempre più significativa con gli interessi degli Stati Uniti d’America i quali, oggi, si trovano costretti a riconsiderare le tradizionali politiche di contrapposizione tra occidente ed oriente per arginare ogni spinta espansionistica “gentile”, ossia non armata, proveniente dall’ Est Asiatico, il cui peso politico, nonostante tutto, continua ad essere considerato comunque minore rispetto alla sua influenza economica. Ebbene: Roma può allora credibilmente “ignorare”, in nome dell’esclusività di una alleanza atlantica di antico sapore, la spinta espansionistica proveniente dalla super potenza cinese in ascesa? La risposta appare direttamente conseguente: il contestato “Memorandum of Understanding”, sottoscritto dal governo italiano, ha spalancato le porte dell’Europa all’intraprendenza economica orientale, sicchè se il confronto e la cooperazione con la Cina sono senza ombra di dubbio una opportunità da coltivare, tuttavia, e allo stesso tempo, quelle stesse esigenze di confronto e di cooperazione, si pongono, altresì, anche nei termini, forse più preoccupanti, della “necessità difensiva”, siccome condizioni utili ad assicurare al Paese Italia, ma anche al continente Europeo, un partner alternativo forte da contrapporre, nei momenti di eventuale necessità, a quello statunitense. Se l’interesse di Washington è quello di creare in Europa, e in Italia in particolare, un argine all’avanzata cinese per conservare un Primato anacronistico, quello di Bruxelles, e con esso di Roma, potrebbe rivelarsi sorprendentemente antitetico, dal momento che l’UE, verosimilmente, non avrebbe alcuna ragione, quanto meno nell’immediato, ad assumere una posizione di confronto antagonistico con Pechino specie in un momento, quale quello attuale, in cui i presupposti fondanti degli ordinamenti liberali sembrano chiamati a subire i contraccolpi degli attacchi ideologici interni ed internazionali che hanno contribuito a radicare nell’animo di gran parte della popolazione occidentale un sentimento di disaffezione verso i tradizionali principi democratici di riferimento.

Giuseppina Di Salvatore

(Avvocato – Nuoro)

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