Alessia Piperno: «Quel terrore della cella da soli, a Cecilia Sala dico di tenere duro come ho fatto io»
La travel blogger che fu rinchiusa a Evin ricorda quei 45 giorni: «Torture psicologiche e dieci minuti di aria per due volte a settimana»Per restare aggiornato entra nel nostro canale Whatsapp
«A Cecilia Sala idealmente dico di tenere duro come ho fatto io per 45 giorni: nel carcere di Evin a noi stranieri fisicamente non torcono un capello, ma mentalmente ti provano molto».
Alessia Piperno, la donna rinchiusa nella prigione iraniana di Evin per 45 giorni, lancia in un'intervista alla Stampa un messaggio alla giornalista incarcerata a Teheran. «So cosa vuol dire il terrore di stare in una cella da soli. Abbraccio i suoi genitori - prosegue -, immagino il loro dolore che è come quello che hanno provato i miei».
Come passava le giornate? «Guardando il soffitto. Sono finita nel reparto 209, dove non hai accesso a nulla, nemmeno a un libro - dice al Corriere della Sera - . È il braccio delle prigioniere politiche, dove si trova Narges Mohammadi. Ci sono altri luoghi, come il 2 A, che dicono essere un po' più tranquilli. A volte non davano l'acqua».
«Contro di noi almeno non alzavano le mani, non ci toccavano, anche se non ci risparmiavano le torture psicologiche – continua -. Una volta mi hanno detto che era morta mia madre, un'altra che dovevo rimanere lì per dieci giorni. A differenza di Sala mi era stato concesso di sentire la famiglia solo due settimane dopo».
Piperno spiega le condizioni di vita dentro il penitenziario: «Non ci sono letti, dormi per terra in mezzo alle blatte, ai capelli e alle lacrime. C'è costantemente freddo perché non ti danno le coperte quando le chiedi - racconta a Repubblica -. Ricordo quelle pareti bianche e una minuscola grata in alto dalla quale non vedevi il cielo. Per noi c'erano solo dieci minuti di aria per due volte a settimana».
Piperno fu imprigionata con due amici conosciuti all'ostello. «Luis Arnaud, un francese, è tornato a casa solamente lo scorso giugno dopo un anno e 9 mesi. Era stato condannato a 5 anni, io a 10. Anche lui come me è rimasto in contatto con i compagni di cella - spiega al Messaggero -. Uscire da un'esperienza del genere non è facile, ti segna per sempre».
(Unioneonline)