Quarant'anni fa, proprio in questi giorni di primavera, un uomo dava le sue direttive ad alcuni operai impegnati a chiudere una veranda nella piazza di Porto Rotondo, località turistica in Comune di Olbia. Ma i lavori, soprattutto il perimetro, erano andati oltre. Un particolare che agli occhi di Luigino Donà dalle Rose, il nobile veneziano fondatore del rinomato borgo turistico, non poteva sfuggire. "Lo sa che lei sta commettendo un abuso edilizio? Non ha le autorizzazioni, e poi ha superato i limiti, c'è un regolamento e lei lo sta ignorando. Sto andando a denunciarla". L'osservazione, pronunciata con una certa enfasi, era rivolta a tale Salvatore "Totuccio" Inzerillo, palermitano, che aveva acquistato un locale per farne una pasticceria. Era piccolo e lui aveva pensato di allargarlo. "Scusi, rimetterò tutto a posto", si limitò a dire l'uomo, con toni quasi remissivi, e la questione si chiuse lì. Passò un anno e la foto di quell'imprenditore siciliano finì sulle pagine di tutti i giornali e sulle tv: Totuccio Inzerillo era stato ucciso con 208 colpi di kalashnikov in un agguato nel pieno centro di Palermo mentre si accingeva a salire sulla sua Alfetta blindata, dopo aver trascorso la notte a casa della sua amante. I killer non gli diedero manco il tempo di aprire la portiera. Non era un semplice pasticciere, Inzerillo, ma uno dei boss più rispettati della mafia palermitana e a capo delle famiglie dell'Uditore e di Passo di Rigano.

Il boss dietro le sbarre
Il boss dietro le sbarre
Il boss dietro le sbarre

Era l'11 maggio del 1981. Diciotto giorni prima, a cadere sotto la pioggia di proiettili dei sicari era toccato a Stefano Bontate, il Principe di Villagrazia, boss della famiglia di Santa Maria di Gesù. L'avevano massacrato a un semaforo pochi minuti dopo aver lasciatogli amici con i quali aveva festeggiato il suo 42° compleanno. Un tempo Bontate e Inzerillo venivano definiti "mammasantissima", termine ormai desueto che allora assumeva un significato di sostanziale rilievo. Qualche giorno prima dell'agguato a Bontate, infatti, in via della Libertà, a Palermo, un giovane con il casco in testa fermò la sua potente Kawasaki davanti alla gioielleria più sicura e protetta della città, imbracciò un fucile mitragliatore e sparò sulle vetrine super rafforzate del negozio che si sbriciolarono in tanti piccoli pezzi. Quindi, si rimise in sella e scomparve. Non era interessato a orologi o catenine d'oro, ma solo a verificare la capacità di perforazione del kalashnikov che appariva sulla scena siciliana per la prima volta. Il commento? "Funziona, funziona". Bontate e Inzerillo, all'epoca, erano i boss più importanti, più ricchi e più autorevoli della mafia, gestivano il traffico di eroina tra Sicilia e Stati Uniti, avevano interessi nell'edilizia e in diverse altre attività e intrattenevano, specie il primo, relazioni con i notabili e i politici della regione e non solo. Erano degli intoccabili, così si pensava almeno. In realtà, per Totò Riina, il viddanu di Corleone, nessuno era intoccabile se si frapponeva alle sue ambizioni di potere.

Cominciava così, con questi due delitti "impensabili" per le gerarchie criminali del tempo, la guerra - chiamata successivamente mattanza - che portò Riina al potere e lasciò sul campo migliaia di morti, mille solo a Palermo in appena tre anni. Dal giudice istruttore Rocco Chinnici al prefetto Carlo Alberto Dalla Chiesa, dai funzionari di Polizia Boris Giuliana e Ninni Cassarà agli ufficiali dei carabinieri Emanuele Basile e Mario D'Aleo sino ai politici Piersanti Mattarella e Pio La Torre, senza dimenticare altri magistrati, altri uomini dell'Arma e della Polizia, i medici Sebastiano Bosio e Paolo Giaccone, impiegati di Comuni e Regione, tutti, però, con qualche "difetto" di troppo: onesti, incorruttibili e disposti a combattere la mafia e i mafiosi.

Qualità importanti, certo, comunque non apprezzate da Riina che nella sua visione "panmafiosa" aveva diviso il mondo nel più classico dei metodi dittatoriali: o con me o contro di me. In realtà, tra le vittime sacrificali nell'ascesa al trono di Totò 'u Curtu - o la belva, come veniva chiamato per la sua brutalità - si registrano anche molti degli uomini che lo aiutarono a diventare il capo dei capi. Tra questi, Filippo Marchese, boss della famiglia di Corso dei Mille, Pino Greco, noto "scarpuzzedda", capo della cosca di Ciaculli, e Mario Prestifilippo, tutti palermitani, gli ultimi due i killer più spietati, efficienti e affidabili che, stando al racconto dei diversi collaboratori, avrebbero sulla coscienza non meno di un centinaio di omicidi a testa e, soprattutto, avrebbero partecipato a tutti i delitti eccellenti.

In quanto a numero di omicidi, probabilmente Marchese, noto Milinciana, non era da meno. Il fatto è che stava esagerando con il sadismo verso le vittime, con l'uso di cocaina che esaltavano la sua follia nei rituali funebri della "Casa della morte" a piazza Sant'Erasmo, dove i condannati - da lui stesso o da Riina - finivano inghiottiti nelle vasche dell'acido dopo le inevitabili torture. La Belva, pensando che la situazione potesse sfuggirgli di mano, decise che Marchese doveva morire. Affidò l'incarico a Greco, che di crudeltà ne aveva da vendere a dispetto dei suoi studi classici e umanistici (amava la letteratura greca e latina e al liceo eccelleva). Milinciana venne immobilizzato e portato con la forza nella Casa della morte e, dopo un brutale e violento pestaggio, venne strangolato con una corda.

Anche Scarpuzzedda per Riina era diventato ingombrante, si era ritagliato un suo spazio importante tanto da essere considerato un possibile futuro padrino. Per evitare che ciò accadesse mandò nella sua casa di campagna due suoi amici, Vincenzo Puccio e Giuseppe Lucchese. Mentre Greco preparava il caffè, i due estrassero le pistole e lo colpirono alle spalle uccidendolo. Il suo corpo non fu mai ritrovato. Era la fine di settembre del 1985. Prestifilippo, già dopo qualche giorno, iniziò a chiedere insistentemente che fine avesse fatto il suo amico Pino Greco, ricevendo risposte evasive, fino a quando non puntò apertamente il dito contro Riina che, nel settembre del 1987, lo fece eliminare dai suoi killer in un agguato a Bagheria.

Questi sono solo frammenti della mattanza messa in atto da Totò Riina e dai Corleonesi. Un'operazione avviata intorno alla fine degli anni Settanta del secolo scorso e conclusa con gli attentati a Giovanni Falcone e a Paolo Borsellino, trucidati insieme alle loro scorte nel 1992. E' vero, ci sono stati gli attentati di via dei Georgofili a Firenze, di San Giorgio al Velabro e di San Giovanni Laterano a Roma, di via Palestro a Milano, quello fallito per un difetto all'innesco allo stadio Olimpico, sempre nella capitale. Questi, però, avrebbero dovuto servire a un altro scopo: far pressioni sullo Stato e costringerlo a trattare con Cosa nostra. Ma questa è un'altra storia.
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