La Catalogna è un altro pianeta (lì ragionano d'indipendenza, e non per scherzo), ma anche qui in Italia c'è un referendum che sa di sfida al governo centrale.

Anzi, due: uno in Lombardia e l'altro in Veneto, ma hanno contenuti molto simili e saranno celebrati entrambi il 22 ottobre.

I quesiti chiedono di conferire maggiori poteri alle due regioni e il pronostico è scontato, vinceranno i Sì: ma tranquilli, il giorno dopo non cambierà nulla.

Giuridicamente, quel voto non può avere conseguenze immediate. Però sarebbe sbagliato pensare che non abbia peso politico. Anche per la Sardegna.

LA LEGA - L'iniziativa referendaria nelle regioni ricche è cavalcata soprattutto dai due governatori leghisti: Roberto Maroni (Lombardia) e Luca Zaia (Veneto). L'obiettivo dichiarato, soprattutto da Zaia, è conquistare il rango di Regione a Statuto speciale: "Per essere come Trento e Bolzano".

Infatti in origine la legge veneta sul referendum prevedeva altri quesiti, ben più incisivi. Compreso quello sulla trasformazione del Veneto in regione speciale.

La Corte costituzionale l'ha cassato, perché le regioni autonome le individua la Costituzione. E ha cassato anche quelli sull'autonomia finanziaria, che ipotizzavano di trattenere in Veneto l'80% delle tasse riscosse.

Quel che resta è un'innocua richiesta di "ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia".

Un po' più articolato il quesito lombardo, ma sempre basato sull'articolo 116 della Costituzione, che dalla riforma del 2001 consente alle regioni ordinarie di trattare per ottenere più competenze su alcune materie (dall'istruzione alle infrastrutture).

LA SFIDA - Servirà comunque una legge nazionale, e la trattativa si sarebbe potuta aprire anche senza referendum. Eppure non si può liquidare tutto con sufficienza.

"Il voto non ha effetti immediatamente precettivi", spiega Andrea Deffenu, docente di Diritto costituzionale dell'Università di Cagliari, "ma non significa che non abbia alcun valore. Se le regioni ordinarie sono pronte ad ampliare la loro autonomia, lanciano una sfida alle altre e anche a quelle a Statuto speciale: queste, se restano ferme, rischiano di veder svilita la specialità".

Nei quesiti il giurista ravvisa "una scelta saggia: anziché compiere atti di rottura col dettato costituzionale, si punta a obiettivi concretamente raggiungibili. In tal senso, questo passaggio è un'evoluzione".

I RISCHI - Francesco Sanna, deputato del Pd e presidente della commissione paritetica Stato-Regione, conferma che "tutto quel che riguarda il regionalismo riguarda la Sardegna. I referendum nascono come mossa politica della Lega, per creare una lunga campagna elettorale fino alle Politiche, che si pensavano più precoci. Ma il vero obiettivo sono le risorse finanziarie".

In effetti la propaganda insiste molto sulle decine di miliardi di tasse che le due regioni trasferiscono a Roma: "Con un quarto della popolazione versano circa il 40% del gettito fiscale italiano", calcola Sanna, "e vogliono trattenere una maggiore porzione della ricchezza che producono. Così però verrebbe meno la solidarietà nazionale".

È vero che le entrate dell'Isola, grazie allo Statuto speciale, rimarrebbero invariate: "Ma senza i gettiti del Nord lo Stato avrebbe difficoltà a coprire i vari servizi, dall'istruzione all'ordine pubblico".

LA CHANCE - Perciò nell'Isola i Riformatori sfruttano l'occasione per stimolare una reazione autonomista: la Regione dovrebbe indire un suo referendum, e ottenere così un mandato popolare per chiedere di inserire in Costituzione il principio di insularità.

"Sarebbe una rivoluzione copernicana", dichiarano il deputato Pierpaolo Vargiu e il presidente del Comitato referendario, Roberto Frongia: "I sardi chiedono le compensazioni infrastrutturali (trasporti, energia, formazione, sanità, fiscalità di vantaggio) dello svantaggio insulare".

È vero che il voto di ottobre "sarà solo consultivo", aggiungono, "ma punta al cuore della coesione nazionale, mettendo ancora i ricchi contro i poveri. La risposta non può essere solo la difesa dello status quo".

Giuseppe Meloni

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