L'ultima udienza del processo "Aemilia", il più grande mai celebrato contro la presenza mafiosa nel nord Italia, e in particolare in Emilia, Lombardia e Veneto, si è chiusa lo scorso 16 ottobre, e ora si attende la sentenza del filone a rito abbreviato, prevista per questa settimana, e quella del rito ordinario per i primi di novembre, al termine del ritiro in Camera di Consiglio dei giudici Francesco Maria Caruso, Andrea Rat e Cristina Beretti.

Un processo cruciale, che per la prima volta ha appurato il radicamento della criminaltà mafiosa - e in particolare del clan Grande Aracri di Cutro (Crotone) - in un contesto diverso da quello cui ci ha "abituato" la cronaca, con interessi legati soprattutto al settore edilizio e ramificazioni profonde e insospettabili in settori della società civile che vanno da funzionari delle pubbliche amministrazioni a liberi professionisti, agenti di sicurezza e imprenditori, che si sono rapportati al clan per ottenere aiuti economici, favori e appalti.

Agli affiliati del clan Aracri viene contestata l'associazione a delinquere di stampo mafioso, che va ad aggiungersi agli altri capi d'imputazione emersi nel corso delle indagini che vanno dall'usura all'estorsione, dagli incendi alle frodi economiche e finanziarie, passando per il falso in bilancio, lo sfruttamento di mano d'opera, il riciclaggio e la turbativa d'asta, le minacce, l'intestazione di beni fittizia e il possesso di armi.

PROCESSO "AEMILIA": LE TAPPE - Tra i filoni dell'inchiesta anche quello riferito alla ricostruzione successiva al terremoto in Emilia del 2012, con la scandalosa intercettazione di due degli indagati che ironizzavano sugli "affari" legati al post sisma, come già avvenne in occasione del dramma dell'Aquila.

L’operazione "Aemilia" era partita nel gennaio del 2015 con l'arresto di 117 persone e l'anno dopo si era aperto il processo, sdoppiato in un filone a rito abbreviato che si è svolto a Bologna e che arriverà a sentenza definitiva della Cassazione proprio questa settimana, e l'altro ordinario che ha avuto luogo in un'aula bunker appositamente approntata al Tribunale di Reggio Emilia.

Un processo di proporzioni enormi, che ha visto coinvolte 45 parti civili, 1300 testimoni, ha vagliato circa 300mila pagine e si è chiuso con una richiesta dell'accusa di pene per quasi 2mila anni complessivi di reclusione.

Pene durissime che potrebbero trovare conferma nella sentenza del prossimo novembre, al termine del ritiro in Camera di Consiglio dei tre giudici, che rendono conto della gravità di un sistema criminale profondamente radicato in regioni settentrionali considerate finora "impermeabili" al virus mafioso, come confermato, del resto, dalla voce del collaboratore di giustizia Antonio Valerio, secondo cui nemmeno il carcere potrà fermare l'avanzare di una 'ndrangheta che si sta modernizzando sempre più velocemente, prendendo i contorni di una vera e propria "holding".

(Unioneonline/b.m.)

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