Braccianti trattati come schiavi e paragonati "ai cani o ai vermi". Quando uno di loro è morto per un malore lavorando nei campi, la prima cosa che hanno fatto è stata portarlo via dall'azienda.

E proprio da quest'ultimo episodio è partita l'indagine della procura di Viterbo sullo sfruttamento di lavoratori agricoli a Ischia di Castro, nel Viterbese.

Un'intera famiglia sarda è finita ai domiciliari per caporalato ed estorsione nei confronti dei familiari di un loro dipendente defunto.

Gli arrestati sono Raimondo Monni e Margherita Centena, assieme ai due figli di 38 e 49 anni, Giovanni e Salvatore Angelo. Sotto controllo giudiziario cinque aziende, tutte riconducibili alla stessa impresa a conduzione familiare, in una zona del Lazio a forte vocazione agricola.

LAVORATORI SFRUTTATI - Il quadro emerso è agghiacciante: una ventina di lavoratori in nero che prestavano servizio nei campi dall'alba al tramonto, (dalle 9 alle 17 ore al giorno) con una paga poco superiore a un euro l'ora (1,16), invece degli otto previsti da contratto. Niente ferie e nessun pagamento degli straordinari ovviamente, nonostante contratti che sulla carta apparivano ineccepibili. A ciò si aggiunge un trattamento disumano, con i lavoratori che venivano chiamati "cani", "vermi", "schiavi", "servi". Gli stranieri venivano trattati peggio, l'unico operaio di origine sarda riceveva invece 4 euro l'ora.

"Le bestie la domenica e il sabato mangiano lo stesso come mangi te! Capisci? Non ci sono sabati e non ci sono domeniche. Vi serve il lavoro? E andate a lavorare", dice il capofamiglia intercettato rivolto a un dipendente. Ancora: "Che giornate? Giornate te ne scrivo 5 al mese! Stop! Festa finita! Adesso lo sai! E devi sta' attento eh! Devi lavorare bene e te lo sto a di’!".

Dipendenti completamente assoggettati, sfruttando la loro condizione di indigenza. Dormivano in luoghi umidi e malsani e all'alba si svegliavano per riprendere a lavorare, trattati come schiavi.

Il modus operandi è sempre lo stesso. All’insaputa del lavoratore, cui vengono arbitrariamente trattenuti i documenti, questi viene ufficialmente assunto, ma senza la firma di un contratto, in modo così da ottenere un duplice risultato: essere tecnicamente a posto in caso di ispezione, ma al tempo stesso porre in una condizione di assoggettamento il lavoratore, completamente all’oscuro di ogni suo diritto, e convinto di un lavoro molto "precario".

LA MORTE DI UN BRACCIANTE - L'inchiesta dei carabinieri forestali e del Nucleo investigativo di Viterbo è nata dalla morte di un bracciante albanese di 44 anni, Petrit Ndreca. "Quell'episodio ci ha insospettiti. Ci era stato detto che era morto in macchina per un malore, mentre andava con il cognato a Pitigliano. Ma non era vero, dalle nostre indagini è emerso che il cognato sia stato minacciato e costretto a mentire dai datori di lavoro di Ndreca", ha spiegato il comandante provinciale dei carabinieri di Viterbo.

Quel bracciante era morto nei campi, stroncato da un malore durante il lavoro. E due degli arrestati, i fratelli Monni, lo avrebbero caricato in auto, avvolto in una coperta e portato in località Ponte San Pietro, al confine con la Toscana.

Solo dopo mesi i militari hanno convinto i parenti della vittima a spiegare com'erano andate veramente le cose: "Avevano paura, poi ci hanno detto che il corpo del loro parente era stato trattato come quello di una pecora. Che gli imprenditori avevano solo un interesse, che il corpo non fosse trovato nella loro azienda".

Non finisce qui, perché secondo i carabinieri il bracciante era ancora vivo quando è stato portato via, e se fossero stati chiamati i soccorsi si sarebbe potuto salvare.

(Unioneonline/L)
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