10 aprile 1991, Livorno, ore 22.25. È buio pesto quando il traghetto della Navarma Moby Prince, appena salpato dalla Calata Carrara, sta per lasciare la rada del porto livornese in direzione Sardegna, Olbia.

Accade l’irreparabile: la nave si va a schiantare contro la petroliera Agip Abruzzo, del gruppo Eni, carica di petrolio iraniano. L’urto provoca un vastissimo incendio che viene alimentato dal petrolio fuoriuscito dalla petroliera. Muoiono praticamente tutti: 140 persone tra equipaggio e passeggeri, 26 sardi. Unico sopravvissuto un giovane mozzo napoletano, Alessio Bertrandt.

L’equipaggio della petroliera viene messo in salvo rapidamente, la Moby Prince viene letteralmente ignorata. I soccorsi non arrivano mai e gli occupanti vengono lasciati in balia delle fiamme e della morte. Dei 140 cadaveri solo uno verrà trovato in acqua, l’unico morto per annegamento.

Sono passati 33 anni. Senza risposta. Indagini, nuove piste e depistaggi, commissioni d’inchiesta. Nulla che abbia saputo dare una risposta certa ai familiari delle vittime della più grande tragedia della marineria italiana del secondo Dopoguerra.

Un corteo (Ansa)
Un corteo (Ansa)
Un corteo (Ansa)

I familiari delle vittime si sono costituiti in due associazioni. La prima, denominata "140", è presieduta da Loris Rispoli, che ha perso la sorella. Tale associazione raccoglie la maggioranza dei familiari. La seconda, quella più recente, denominata "10 aprile", presieduta da Angelo Chessa (scomparso a giugno 2022), figlio del comandante Ugo. Entrambe le associazioni continuano ad impegnarsi, coinvolgendo attivamente le istituzioni, allo scopo di scoprire la verità e ottenere chiarezza e giustizia.

Nel processo di primo grado a Livorno vengono assolti tutti gli imputati: un ufficiale di coperta della petroliera, il comandante in seconda della Capitaneria di Porto e l’ufficiale di guardia per non aver attivato i soccorsi tempestivamente e un marinaio per non aver trasmesso la richiesta di soccorso. Tutti assolti «perché il fatto non sussiste». In secondo grado interverrà anche la prescrizione. Un’altra inchiesta viene aperta nel 2006 e archiviata nel 2010.

Poi ci pensa il Parlamento, con due commissioni d’inchiesta. Che appurano diversi elementi: l’indagine della magistratura fu carente e lacunosa; lacunosi e in netto ritardo arrivarono anche i soccorsi; quella sera non c’era, come si è pensato a lungo, nebbia; non ci fu avaria a bordo del traghetto ed è da escludere la distrazione del comando del traghetto; la Moby Prince ha alterato per cause non chiare la sua rotta di navigazione; la petroliera Eni si trovava dove non doveva essere e forse era coinvolta in attività di bunkeraggio clandestino («noi abbiamo chiesto i materiali delle inchieste interne ma non li abbiamo avuti»).

Alessio Bertrandt (Ansa)
Alessio Bertrandt (Ansa)
Alessio Bertrandt (Ansa)

Due anni fa Alessio Bertrandt, l’unico superstite, è stato intervistato dal Tg1.

«Ce la dovevano fare pure gli altri, non mi do pace per questo. Vivo tutti i giorni con l’ansia e con la depressione, prendo psicofarmaci», ha detto. Non riesce a dormire più di tre ore a notte, con il risarcimento ha comprato a Ercolano la casa in cui vive con moglie e due figli, che mantiene con la sua pensione di invalidità. Bertrand era un mozzo di 23 anni, imbarcato con lo zio, da allora non è mai più salito su una nave.

«Sentimmo il boato, uscimmo fuori, andavamo avanti e indietro senza sapere dove andare. Poi mi sono appeso a un corrimano, aspettando qualcuno. Poi mi sono buttato a mare, e mi hanno preso due ormeggiatori, che poi mi hanno portato sulla motovedetta della capitaneria di porto», è il suo racconto di quei drammatici momenti. Per lui alla verità «si può arrivare, se indagano e collaborano tutti quanti».
(Unioneonline)

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