Possono bastare un film, un’immagine, la battuta di un attore per aver voglia di “sentire il vento che spira nelle sponde del mar Caspio” e, all’improvviso, sentirsi meno libera. «Io non posso andare in Iran». Virginia Pishbin aveva 21 anni quando l’urgenza si è fatta «deflagrante». E ora, a un anno esatto dalle proteste iniziate con la morte di Mahsa Amini, la giovane curda arrestata perché non portava correttamente il velo e morta nelle mani della polizia morale di Teheran, racconta la sua storia prima di indossare il camice e iniziare la giornata nell’ambulatorio della Asl di Nuoro dove lavora come medica. «Mio padre era andato via per studiare. Aveva scelto Sassari dove c’era la facoltà di Agraria, in realtà avrebbe voluto studiare Sociologia ma la legge non permetteva agli studenti all’estero di ricevere fondi dalla famiglia per materie diverse da quelle tecniche». Si è fermato in Sardegna. «Ha conosciuto mia madre all’università. Ma nel 1979 era rientrato per partecipare alla rivoluzione, quella che ha cacciato lo scià. Due anni dopo, con il sopravvento del regime teocratico, aveva dovuto lasciare l’Iran. Definitivamente. Io sono nata qui».

Che cosa sa dell’ultima volta di suo padre in Iran?

«Aveva partecipato alle proteste del giugno 1981, c’erano 500mila persone in piazza, hanno sparato sui manifestanti. Il regime ha considerato la resistenza iraniana un nemico di dio ma la religione non c’entra».

Cioè?

«L’islam è una religione aperta, basti guardare a casa mia: mio padre islamico, mia madre atea, mia nonna cattolica, io buddista».

Suo padre era un rifugiato politico?

«Un esule. È scappato quando sono iniziati i rastrellamenti».

Parlavate di questo a casa?

«Mio padre è morto nel 2016 e non mi ha mai spinto verso l’islam né mi ha impedito di avvicinarmi. Sono stata io nel 2003 a decidere di partecipare a una manifestazione a Washington: volevo conoscere da vicino la Resistenza iraniana. Due anni dopo sono stata un mese intero a Parigi e da allora partecipo a tutte le manifestazioni, lotta civile e politica».

Fino a diventare presidente dei Giovani iraniani in Italia.

«Sì, ma di fatto non ci sono gerarchie. Ho conosciuto giovani iraniani a Napoli scioccati per come io conoscessi bene la società iraniana sebbene non parli fluentemente il farsi, però insomma, mi sono ripresa le mie origini. E quando andrò in Iran quello sarà il mio premio».

Un anno fa l’inizio delle proteste per la morte di Mahsa Amini.

«Sarò impopolare ma l’Occidente quando si accorge delle cose sembra che stiano iniziando in quel momento, invece è 40 anni che siamo in piazza perché le persone vengono arrestate, torturate e uccise».

Ma nel 2022 c’è stata un’importante sentenza a Stoccolma.

«Sì, Hamid Nouri, funzionario dello stato clericale, uno dei torturatori del regime, è stato condannato all’ergastolo. Nel 1988 ha “trattato” cinquemila prigionieri nel carcere di Gohardasht vicino a Teheran. Quell'estate in poco più di due mesi e mezzo sono stati trucidati circa 30.000 prigionieri politici, tra questi c’erano donne incinte, minori, persone che avevano già concluso il loro periodo di detenzione e aspettano la scarcerazione. Sulla base dell'editto religioso dell'allora leader spirituale supremo Khomeini sono stati condannati dalle famigerate commissioni della morte dopo un processo farsa di un minuto in cui si chiedeva loro di rinnegare la lotta contro il potere clericale e l'appartenenza ai Mojaheddin del popolo iraniano».

I social hanno contribuito a rendere visibili le proteste di oggi.

«Sì, ma non dimentichiamo che di Masha Amini ce ne sono migliaia».

Però è diventata un simbolo e questo non è negativo.

«Certo, anche perché serve a ricordare che il regime si fonda sulla misoginia legalizzata, vuole le donne come fattrici, non a caso in quarant’anni la popolazione è raddoppiata».

Un anno dopo la fiamma è ancora accesa?

«Più che mai. Dopo la Cina l’Iran, secondo Amnesty International, è il Paese col numero di condanne a morte più alto al mondo. Dobbiamo stare attenti, i venti che spirano in Iran potrebbero arrivare anche qui. Io non sono per la guerra ma per l’autodeterminazione dei popoli. Con una associazione che si occupa di diritti umani vorrei organizzare un grande evento, dopo aver partecipato alla Commissione delle Nazione Unite, a New York, sulla condizione delle donne».

Ecco, le donne: in prima linea.

«Sì e ora in mille, 50 ex presidenti, vicepresidenti, prime ministre, ministre oltre a 175 parlamentari e centinaia di sindache, ex parlamentari, attiviste, accademiche, esperte di diritti umani e giuriste, premi Nobel e presidenti di organizzazioni non governative provenienti da diversi stati europei, Australia, Nuova Zelanda e Medio Oriente e Usa chiedono alla comunità internazionale di esprimere sostegno a Maryam Rajavi, presidente del consiglio nazionale della Resistenza iraniana e al suo piano per una repubblica democratica; inserire nella lista nera il corpo delle guardie rivoluzionarie islamiche; stare dalla parte delle donne coraggiose e del popolo iraniano».

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