L’insegnamento di Filippini: «La credibilità è il nostro faro»
Riproponiamo di seguito una lunga intervista concessa il 3 marzo del 2018 al condirettore e direttore editoriale de L’Unione Sarda Lorenzo Paolini in occasione del pensionamento del Direttore dopo 64 anni di attivitàGianni Filippini in redazione (archivio)
Per restare aggiornato entra nel nostro canale Whatsapp
«Il primo che ho conosciuto è stato il conte Giulio Spezia che scriveva con penna e calamaio. Ma chi mi ha assunto poco dopo, 8 gennaio 1954, è stato Fabio Maria Crivelli: mio primo e unico direttore. Nel 1977 quel ruolo è diventato il mio».
Gianni Filippini ha lo sguardo liquido e curioso mentre si aggira con garbo loquace nella storia del giornalismo sardo. Un primato che cammina: 64 anni nella stessa azienda, L'Unione Sarda. Ha vestito tutti i ruoli, come si conviene a chi è salito sulla tolda dopo aver frequentato i piani sottostanti: correttore di bozze, redattore, inviato speciale, capo di cultura e spettacoli, direttore. Poi manager, presidente di consigli d'amministrazione, direttore editoriale fino al 31 gennaio scorso. A 86 anni ha deciso di sperimentare l'ebbrezza della pensione, il brivido sottile dell'intellettuale a riposo che, di norma, oscilla fra ozio agiato e malinconia. Non nel suo caso. «Ancora meglio del previsto. Concerti di musica classica, teatro, convegni, senza pensare che sto facendo qualcosa per lavoro. Tutto solo per il mio piacere». Alle pareti della casa tutta luce e libri, un'essenziale Natalità di Maria Lai, i lettori di giornale di Tore Canu, la Via crucis di Sciola. Sotto il ripiano di vetro del grande tavolino, una sorta di piccola Wunderkammer borghese: la collezione di insetti con particolare riguardo per gli scarabei, i minerali rari in bell'ordine, le conchiglie. Nell'ala più privata della casa, le bandierine piantate su un grande planisfero raccontano quanta parte di mondo è rimasta inesplorata. Non tanta, a essere sinceri. «Non mi sono comprato la barca ma con mia moglie abbiamo viaggiato davvero». E comunque in barca è andato, per esempio sul Rio delle Amazzoni a caccia notturna di coccodrilli. Trenta gradi e lui, impeccabile, in giacca e cravatta.
GLI INIZI «Avevo 21 anni, studente di Giurisprudenza con pochi soldi in tasca. Un giorno prendo fogli di carta bianca e mi propongo per lavorare in Comune, Prefettura, L'Unione Sarda. Mio padre era stato un giornalista del quotidiano, conoscevo le regole. Con una prassi che oggi sembra incredibile, L'Unione mi risponde per prima: la assumiamo come correttore di bozze ma dovrà fare anche il reporter. Stipendio iniziale, 21.500 lire. Al giornale c'erano solo due macchine: quella del direttore e del vicedirettore. Io scarpinavo, dovevo girare a piedi tutta la città, passando per ospedali, questura e così via. Dopo tre mesi, forse impietositi, mi diedero una bicicletta e lo stipendio passò a 28.500 lire. Molti anni dopo, da direttore, l'avvocato Salvadori mi disse: le regaliamo una macchina, scelga lei. L'Unione aveva toccato stabilmente il traguardo delle centomila copie vendute: come premio scelsi l'Argenta Fiat, l'ammiraglia».
LA PASSIONE «Non desideravo fare il giornalista, puntavo alla magistratura. Però i tempi erano più lunghi e gli stipendi, allora, praticamente identici. In più i due fratelli Fiori, Peppino e Vittorino, indimenticabili colleghi, non si rassegnavano al fatto che me ne volessi andare. Con il capocronista, Antonio Ballero, mi proposero di fare un'inchiesta sui quartieri della città, primo Sant'Elia, per sperimentare sul campo se era il lavoro per me. Una scommessa che ha toccato il mio orgoglio. Per chiarirmi ulteriormente le idee sono partito per un tour dei grandi giornali, finanziato da me beninteso. Ricordo la visita a La Stampa di Torino: ero riuscito a farmi ricevere dal caporedattore quando è entrato il mitico direttore Giulio De Benedetti. Aveva capito dall'accento che ero sardo e voleva parlarmi dell'edizione che il giornale voleva dedicare agli emigrati sardi in Piemonte. Mi congedò dicendo che avrei fatto carriera e sarei diventato direttore».
LA CARRIERA «Iscrizione all'albo, 1 gennaio 1954. Primo articolo, 2 giugno. Allora si usava così, prima le brevi, poi gli articoli anonimi, la firma era una conquista, io ci ho messo sei mesi. Poi sono diventato inviato, negli anni '60 Fabio Maria Crivelli mi ha affidato le pagine di Cultura e Spettacoli. Sono stato corrispondente della Stampa, del Corriere dello sport pagato 5 lire a riga, un'enormità per allora. L'unico nostro concorrente era il giornale della Diocesi, diretto da un sacerdote, puro artigianato. Per dare un'idea degli organici, all'Unione eravamo in otto. Continuo a considerarla la mia professione, in tutti gli incarichi ho preteso che i giornalisti non sarebbero mai stati mia controparte. D'altro canto tutto quello che ho è figlio del ticchettio su una macchina da scrivere. Qualcuno ha fatto i conti alla grossa: ho scritto almeno seimila articoli e 750 editoriali».
LA GRANDE CRISI «L'informazione non avrà mai fine perché la gente ha bisogno di sapere. La crisi però pesa, e pure tanto. Il nocciolo è la qualità. L'Unione Sarda, nella storia, ha subìto alcuni attacchi insidiosi, ricordo bene Tutto quotidiano , L'altro giornale , e ha saputo fronteggiarli con qualità e completezza. Il punto è che i lettori hanno bisogno di precisione e certezza, se tu fai un bel giornale di 60 pagine e poi sbagli l'ora del congresso hai distrutto tutto. Chi ti legge deve pensare che quel che è scritto sul giornale è come un Vangelo. Fiducia, credibilità e fatti separati dalle opinioni: più che antichi, mi sembrano addirittura concetti del futuro».
I NUOVI MEDIA «Facebook, Twitter, Instagram, conosco i social media e li frequento senza paura. Non credo siano la causa della crisi dei media tradizionali perché non hanno capacità informativa, sono un'altra cosa. Ma tu, giornale, devi fare scuola fra i tuoi cronisti, scrivere approfondimenti degni di questo nome, specializzarti, sapere dove va il mondo. Un po' come il discorso dei supermarket: si diceva che avrebbero ucciso i negozietti. Il che è parzialmente avvenuto ma solo per chi non ha reagito e non si è saputo specializzare. Gli altri sono in buona salute. Ci sono cicli ai quali bisogna essere preparati. Quando sono diventato dirigente di Videolina, c'era il boom delle televisioni private. Era opinione unanime che le radio, in grande crisi, sarebbero morte di lì a poco. La storia è andata diversamente e oggi sono vive, vitali e di gran moda».
GLI EDITORI «Ne ho conosciuto cinque, i Sorcinelli di seconda e terza generazione, l'avvocato Salvadori che poi abbiamo saputo che rappresentava la Sir di Nino Rovelli, Nicola Grauso e Sergio Zuncheddu. Da tutti ho avuto lezioni importanti. Pressioni? Capita, l'unico modo per reagire è tenere la schiena diritta. Da giornalista intervistai Andreotti, un distillato di simpatia e cinismo. A fine conversazione mi disse: la libertà di stampa non esiste, è normale che io mi muova presso il suo editore per apparire nel miglior modo possibile. Quando qualcuno ha invaso il mio ruolo, per esempio annunciandomi assunzioni che avrei dovuto per contratto decidere io, ho messo a disposizione il posto di lavoro».
LA POLITICA «Mai fatta, sempre da spettatore. Piuttosto sono stato assessore in amministrazioni che erano espressioni di maggioranze con idee politiche, per inciso non condivise interamente da me. Mariano Delogu era uno dei miei più cari amici, i nostri figli ci chiamavano rispettivamente zio. Quando è diventato sindaco mi ha offerto un posto in Giunta che ho rifiutato finché non ha trovato il chiavistello per convincermi. Mi ha detto: hai sempre criticato, adesso hai l'occasione per cambiare le cose a Cagliari. Alle fine ho accettato una delega immensa che andava dai musei all'edilizia scolastica, sono riuscito a difendere il mio campo, ho respinto attacchi al budget della Cultura. Ricordo solo un episodio sgradevole: ero in Consiglio comunale, un messo mi dice che un sindacalista vuole vedermi. Il mio ufficio era altrove, chiedo in prestito la stanza del sindaco e lo ricevo. Gli interessava che l'appalto delle mense scolastiche fosse vinto da una certa società, per questo mette una busta sul tavolo. Senza rispondere, prendo il telefono e chiamo i vigili urbani per farlo mandare via. Il tempo di voltarmi e si era dissolto. Sparito, mai più visto».
CULTURA, INTELLETTUALI E LETTURA «Non c'è nulla di antico e obsoleto nel pensiero documentato. Ho fatto Sardegna in libreria alla Rai, Panorama sull'Unione, circa 800 puntate di Sardegna d'autore su Videolina. Ho letto di tutto, parlato con autori importanti e con persone che non avevano neanche riletto il libro che mi portavano. L'editore Sergio Zuncheddu, durante la cerimonia di saluto quando ho lasciato la direzione editoriale, ha detto che in 15 anni sono state vendute qualcosa come 7 milioni di copie. Nel 2003 abbiamo varato la Biblioteca dell'identità, Grazia Deledda, l'Angius-Casalis, abbiamo battuto ogni campo. Fatta una media, si può dire che in ogni casa della Sardegna ci siano cinque o sei volumi della collana. I sardi sono attentissimi alla loro storia e L'Unione Sarda ha svolto un ruolo importante sul piano socio-culturale».
IL POTERE «Non ho mai avuto tentazioni di abuso. Il potere del giornalista, se mal esercitato, può avere conseguenze terribili. Dietro ogni notizia non c'è il vuoto: ci sono nomi e cognomi, persone, sentimenti. La consapevolezza del potere, per chi fa il nostro lavoro, è l'inseguimento della verità con la certezza che difficilmente esiste. La prima è probabilmente fasulla, bisogna sempre andare oltre per scoprire che magari esistono più verità».
DONNE GIORNALISTE «Nel 1977 sono diventato direttore di un giornale che allora aveva 88 anni e neanche una donna in redazione. Il 7 marzo ho chiamato una collaboratrice che non conoscevo ma mi sembrava promettente. Le ho detto: scrivi per domani un bell'articolo, non banale e senza luoghi comuni, sulla festa della donna e lo pubblico in prima pagina. Per tre ore è rimasta chiusa in una stanzetta da cui usciva il fumo. Alla fine il pezzo è stato pubblicato e Maria Paola Masala assunta: prima donna a L'Unione Sarda. E mi piace ricordare anche Maria Francesca Chiappe, prima capocronista donna. L'ho conosciuta quando era una nuotatrice e io presidente di una società, in qualche modo ho tenuto a battesimo anche lei».
Lorenzo Paolini