Matteo Bassetti: «Senza ricerca viviamo di meno, la politica non invada il campo della scienza»
Il direttore del reparto Malattie Infettive del San Martino di Genova polemizza anche con Donald TrumpPer restare aggiornato entra nel nostro canale Whatsapp
Tra i suoi ultimi bersagli c’è Donald Trump. Matteo Bassetti, direttore del reparto Malattie Infettive del San Martino di Genova, lo critica per le frasi sulla presunta correlazione tra l’uso del paracetamolo in gravidanza e lo sviluppo dell’autismo. Esperto comunicatore, Bassetti lo liquida con «confusione e disinformazione». L’infettivologo è intervenuto a Radar (su Videolina), parlando della crisi del sistema sanitario. Che «rischia di saltare per aria».
Professore, partiamo da politica e scienza. Lei invoca il rispetto dei confini.
«Purtroppo c'è qualcuno che probabilmente non è contento di quello che fa. Quando la politica invade così costantemente il mondo della medicina e della scienza, dicendo come ci si deve curare, e non che cosa fa male alla salute, siamo davanti a un pericoloso cortocircuito».
Il caso Trump-paracetamolo è l’ultimo esempio. Ma c’è molto altro, anche in Italia.
«Certo. Basta pensare alle vaccinazioni o alla terapia dei tumori. Sottolineo quello che ho detto tante volte: medicina e scienza non hanno bisogno di democraticità come invece ha bisogno la politica».
E quindi chi la spara grossa lo fa per il consenso…
«Semplifico. Se una cosa è giusta, è giusta perché lo ha stabilito uno studio scientifico, perché conta la forza statistica di uno studio sperimentale. Solo quella».
Ma la politica alla fine decide.
«La politica ha bisogno dei voti. Noi no. Dispiace quando la politica va a cercare il voto di qualcuno che è contro la scienza, contro i vaccini. Insomma, contro la medicina».
Ci sarà pure una politica che difende la scienza…
«C’è una cattiva politica, “di cuore”. Dalla quale dobbiamo stare lontani. Quando non si fa la ricerca, si vive di meno. Ma vivono meno soprattutto i più fragili, i più deboli. Quindi la battaglia per la scienza è una battaglia per tutti noi. Anzi per tutti voi».
In Sardegna abbiamo avuto diversi casi di West Nile, alcuni mortali. La prevenzione non è solo evitare le punture delle zanzare…
«La prevenzione deve essere nelle corde innanzitutto della politica. La zanzara non è un ‘’fastidio’’ ma un potenziale veicolo di malattie infettive e come tale deve essere affrontata. Ma in tempo, non il 10 agosto. Con la disinfestazione, l’informazione per i cittadini. Serve insomma educazione sanitaria. Che nel nostro paese, purtroppo, non si fa come si dovrebbe».
La crisi del Servizio Sanitario Nazionale. Come si inverte la rotta?
«Abbiamo perso punti negli ultimi anni, con il covid che ha scombussolato l’organizzazione di tutti i sistemi sanitari. Si doveva correre dietro a chi stava male e quindi si faceva meno prevenzione. Ma poi il sistema è stato scombussolato anche dal punto di vista, come dire, ‘’politico-mentale’’».
Vuol dire sgambetti della politica?
«Siamo passati da alcuni che criticavano il vaccino Covid, alla critica di tutto l'impianto delle vaccinazioni, che sono parte integrante della prevenzione. Quindi è come se in questo Paese l'argomento prevenzione fosse diventato politicamente scomodo. E così nella prevenzione stiamo pesantemente zoppicando».
Messa così non c’è da essere ottimisti.
«Ci vuole un nuovo vigore, a livello nazionale e locale. Ne va della tenuta stessa del sistema sanitario. Perché se non sa fare la prevenzione, non riesce a fare gli screening, non vaccina la gente, rischia di saltare per aria».
Nel suo ultimo libro “Essere medico. Come l’empatia aiuta a guarire” ammette di essere stato un medico freddino… Oggi come va con l’empatia?
«Diciamo che sono un ex freddone più che freddino. Ero uno di quelli che è cresciuto col paradigma che il medico più bravo deve essere quello più freddo. Mi sono laureato nel 95 e presto ho capito che questo era un modello che non funzionava. Forse funzionava bene ‘’tecnicamente’’, ma non in quel completamento che un medico deve avere: saper parlare con il suo paziente, emozionarsi con lui e anche soffrire in alcune situazioni. Poi, da direttore di reparto, ho cercato di essere più empatico, comunicare maggiormente, ascoltare di più».