Cappuccetto Rosso e il Lupo Cattivo
Di lupi cattivi travestiti da nonnine buone, nella drammatica vicenda dell'assalto eolico e fotovoltaico alla Sardegna se ne vedono tanti, eccitati dalla facile preda che, perlopiù ignara, è destinata a essere ingannataUna delle fiabe più lette ai bambini prima di addormentarsi è Cappuccetto Rosso. E la domanda più ricorrente ai genitori è: perché il Lupo Cattivo si è travestito da nonnina buona? Per ingannare e mangiare Cappuccetto Rosso, la risposta. Fuor di metafora: di lupi cattivi travestiti da nonnine buone, nella drammatica vicenda dell'assalto eolico e fotovoltaico alla Sardegna se ne vedono tanti, eccitati dalla facile preda che, perlopiù ignara, è destinata a essere ingannata.
Ci sono quelli che arrivano vestiti di tutto punto, tirati a lucido come il giorno della cresima, parlantina sciolta, occhio furbo e ammiccante, convincenti con chi è disposto a credere, per ingenuità o per partito preso, alle più grandi e fantasmagoriche bugie. Sapete, voi sardi – dicono - che i parchi eolici servono per la modernità dell’Isola perché segno del progresso che avanza? E che – aggiungono - vi procurano pure benefici occupazionali ed economici rilevanti? Sapete - continuano - che hanno pure una funzione pedagogica per le scolaresche, in tema di transizione green? E sapete, voi sardi – raccontano i più arditi - che parchi eolici e fotovoltaici sono attrazione turistica?
Lupi cattivi travestiti da innocue nonnine sono, invece. L’inganno è la loro cifra morale.
I lupi amano stare in branco per attaccare la preda coordinati, accerchiarla e confonderla. Così anche certi umani regrediti in lupi. Si dividono i compiti: gli uni preparano il terreno, ovvero le regole; gli altri, ben informati e ben appostati, ne approfittano e, applicandole, si impadroniscono della preda. Facile.
I più scafati, convinti di essere intelligenti più delle prede – solo più lente a capire, queste, per distrazione, indolenza o rassegnazione - pretendono pure di convincerci del cospicuo vantaggio che l’appropriazione della preda procurerebbe al depredato.
In questa nostra povera e sfortunata Isola se ne sono visti tanti di predatori e prenditori e banditi. Pensavamo di avere finito con questi. Non lo è, finita, e, a causa della nostra colpevole e imperdonabile ingenuità, non finirà forse mai.
Non abbiamo memoria del passato remoto, né prossimo e neppure degli accadimenti del tempo presente. Se l’avessimo avremmo anche gli anticorpi, capaci di espungere gli avvoltoi che volteggiano intorno alla preda ambita, cioè noi e le nostre belle cose. Se ogni tanto ricordassimo, senza andare troppo in là nel tempo, che i padroni delle nostre miniere facevano di cognome Brander, Hotzendorf, Mandel, Bosen d’Hildescheim; che i lecci delle nostre foreste furono segati per farne traversine per le ferrovie del continente, non per le isolane; che il sistema bancario sardo, per costruire il quale c’è voluto più di un secolo, è stato dismesso in un amen, così che parte dei risparmi locali alimentano sistemi economici del continente. Se avessimo avuto memoria avremmo imparato dai nostri errori e ci saremmo risparmiati tanti guai. Ma non l’abbiamo avuta. Siamo come un bambino che si affaccia per la prima volta su un mondo complicato, costretto a pagare ogni volta lo scotto che ogni nuova esperienza comporta. Siamo una comunità preda di branchi di lupi che la fanno da padroni in casa nostra, favoriti da logiche politiche nazionali e internazionali al servizio di interessi economici che hanno nomi e cognomi e centri decisionali fuori dalla Sardegna. E da logiche politiche e di interesse locali, per la nostra storica incapacità di unirci per difendere i beni di valore inestimabile posseduti.
Ne approfitta, il branco, delle nostre debolezze, e si permette di prenderci pure per i fondelli, convinto che tanto tutto passa, che anche le peggiori nefandezze verranno digerite e assimilate da una popolazione assuefatta al sopruso.
La nostra storia, anche la più recente, dà loro ragione.
Travestiti da gentiluomini si comprano terre, consenso, favori.
Fanno il loro mestiere di predatori in forza di regole beffarde, e violente, quando impongono l’esproprio dei terreni di proprietà privata, con la copertura del dichiarato interesse pubblico “gentilmente” garantito, per essere consegnati agli speculatori privati perché si arricchiscano.
Non c’è differenza sostanziale tra il sistema feudale, qui subito per quattro secoli, e l’attuale sistema di sfruttamento paesaggistico in corso.
Nel primo i sennores - baroni, conti, marchesi ecc - erano proprietari di terre, armenti, attrezzi e titolari, persino, dell’esecrabile ius primae noctis, umiliazione e mortificazione di spose e sposi – vivevano, nelle loro belle case affrescate, della rendita garantita dallo sfruttamento di contadini e pastori, procurata loro dai podatari locali delegati a gestione e riscossione.
Nel secondo sistema, l’attuale, accade lo stesso.
I moderni sennores arrivano qui, sfruttano e distruggono i nostri beni collettivi identitari e se ne ripartono, verso le loro belle case, sicuri che il tassametro degli incentivi statali girerà per decenni a garantire loro cospicui rendimenti. Sul bilancio regionale peserà, come già accaduto con le miniere, lo smaltimento delle porcherie che ci avranno lasciato.
E chi sono i novelli podatari locali? Sono coloro che, consapevoli o meno, favoriscono il branco nei procedimenti autorizzativi, ciascuno dei quali significa deformazione e decadimento paesaggistico e ambientale, archeologico, monumentale e culturale; significa compromissione del potenziale turistico, fonte di reddito crescente anche per paesi e borghi antichi dell’interno, le cui campagne, colline e montagne sono diventate prede da lacerare.
Di questi novelli podatari, sui quali molto ci sarebbe da dire, cronaca e Storia ne racconteranno in profondità le gesta.
Si dice che questo è il mercato. Che questo è il capitalismo. No, non è né l’uno né l’altro. Si chiama appropriazione di cosa altrui, ad essere gentili. Valga per tutti l’esempio di una società di 10mila euro di capitale, la quale, ottenuti i titoli autorizzativi, è stata dopo poco tempo rivenduta, senza battere un chiodo, a ben 30 milioni! Pensiamoci: un pezzo di carta che autorizza la devastazione paesaggistica garantisce un tasso di rendimento dell’esiguo capitale investito pari al 3.000%.
Non è capitalismo vero, e sano, quello praticato qui da quei soggetti. È, invece, capitalismo predatorio di tipo coloniale, che dovrebbe essere sanzionato, oltre che dalla legge morale, anche dalla legge penale.
Ma, c’è un ma.
La proposta di Legge di Iniziativa Popolare Pratobello ’24 sembra aver risvegliato le coscienze sopite. Il consistente afflusso nei luoghi preposti per apporvi la firma lo dimostra e fa ben sperare sulla crescente consapevolezza della gente, desiderosa di partecipare e incidere sulle decisioni che riguardano i propri beni collettivi e il proprio futuro.
Il merito è dei sindaci coraggiosi, dei comitati sorti numerosi, dei consiglieri comunali, segretari e personale dei municipi, artefici, tutti, del risultato che si prospetta.
Il messaggio che emerge dalla sentita partecipazione popolare è che paesaggio, nuraghi, chiese, monumenti identitari e via elencando non possono essere né deformati né devastati. La richiesta che viene dalla Comunità sarda è che le istituzioni preposte al bene della Sardegna adottino con urgenza la proposta di legge Pratobello’24, così consolidando i vincoli già mappati dalla stessa Regione, come indicato anche dal documento del Comitato per l’Insularità in Costituzione qui pubblicato qualche giorno fa. L’Istituzione regionale possiede già, per aver commissionato tempo fa alle Università sarde la mappa delle aree non idonee - si presume anche pagata, senza necessità di ripetere incarichi perditempo - corrispondenti al 98,8% del territorio regionale. I vincoli riportati e già cogenti per i sardi residenti vanno trasformati in divieti con la legge urbanistica proposta, validi anche per i non sardi, in forza della competenza esclusiva statutaria di rango costituzionale (art.3, lettera f), unico rimedio efficace, data l’emergenza attuale, per fermare lo scempio.
Consentirebbe di trattare con lo Stato sul restante 1,2% del territorio da una posizione di non debolezza genuflettente, pretendendo che la transizione energetica in Sardegna si sviluppi nella varietà di fonti di energia rinnovabile, come statuito dallo stesso Decreto Draghi all’Articolo 2, comma 1, lettera a), che definisce cosa si intenda per energia rinnovabile e che qui integralmente si riporta: “energia da fonti rinnovabili” oppure “energia rinnovabile”: energia proveniente da fonti rinnovabili non fossili, vale a dire energia eolica, solare, termico e fotovoltaico, e geotermica, energia dell’ambiente, energia mareomotrice, del moto ondoso e altre forme di energia marina, energia idraulica, biomassa, gas di discarica, gas residuati dai processi di depurazione e biogas”.
E all’art. 2, comma 1, lettera u): “rigenerazione forestale”, ricostituzione con mezzi naturali o artificiali di un’area boschiva a seguito della rimozione della precedente popolazione forestale per abbattimento o per cause naturali, compresi gli incendi o le tempeste”.
Parla anche di idrogeno, il decreto, proposta ricorrente per la soluzione di medio termine in questo giornale.
Non siamo condannati a ospitare eolico e fotovoltaico, dice il decreto. Non siamo obbligati ad assecondare l’avidità di chi trova più facile, pratico e veloce devastarci il territorio. Non è che ci manchino moto ondoso e dighe, per esempio, o foreste da ricostituire. Gli stessi incentivi possono essere destinati a fonti rinnovabili alternative, meno invasive e dannose per la Sardegna, ma limitatamente al restante 1,2% del nostro Territorio, posta la sacralità del 98,8% che, per pale eoliche a terra e a mare e fotovoltaico nelle zone già mappate come non idonee, deve rimanere intoccabile.
Su questa linea continueremo fino a che non sarà stato salvato tutto ciò che ancora, di questo Territorio, si può salvare.