G ianni Alemanno – l'ultradestro che fece il sindaco di Roma e il ministro portando al collo la celtica di un camerata ucciso, quello che ha declinato il rautismo in sovranismo putinista o almeno antiZelensky, che scuote la testa a sentir parlare di patriarcato e usa ancora la categoria dei “viziosi” - sta firmando una preziosa operazione di progresso. Mentre sconta una pena per traffico di influenze – circostanza notevole in un Paese dove un colletto bianco per finire dentro deve strozzare un chierichetto sull’altare – tiene un diario della cella che poi nel rispetto del nostro occhiuto ordinamento riesce a postare su Facebook. È una lettura illuminante e doverosa, un faretto su un angolo buio dove lo Stato non recupera né rieduca ma tormenta i condannati e pure gli incensurati, visto che in quell'inferno vivono anche gli agenti. Certo, politicamente è interessante una destra-destra che non è sceriffa e non vuol buttare le chiavi, ma Alemanno non voleva buttarle neanche prima e la pensava già così, non è uno che scopre l'acqua bollente quando ci cade dentro. È civilmente che la sua azione di denuncia è inestimabile: chi crepa in galera lo fa su delega di noi contribuenti, di noi elettori, di noi liberi. Ignorare il suo dolore lucido, le sue cronache del caldo e del sovraffollamento e di un affanno che nulla ha di espiatorio, sarebbe un crimine.

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