C hi firma queste righe abitualmente veste emporio armadi: apre i cassetti e pesca in quel che ci si è stratificato dentro negli anni, tra maglioni compleannizi e t-shirt di qualche festival.

Forse è roba generazionale, forse nasce da un’insofferenza giovanile alla dittatura ridanciana della fashion anni Ottanta. E poi col tempo la sciatteria da militanza è diventata abitudine. Chissà per quanti è così, chissà quanti jeans logorati dall’uso (non strappati per vezzo) hanno vestito una polemica no-logo poi sbiadita in automatismo mattutino. E chissà quanti di noi astensionisti del look, in questi giorni di lutto per Armani culminati ieri nel suo aristocratico e intimo funerale, leggendo le riflessioni distillate in suo onore hanno avuto il dubbio di aver sbagliato almeno un po’, e di aver frainteso lo stile come i qualunquisti fraintendono la politica. Perché lo stile, come la politica anche se meno drammaticamente, si occupa di te pure se tu lo snobbi. E i grandi creatori determinano molto del panorama che respiri, attraverso gli outfit di chi ti sta attorno ma anche attraverso le pubblicità, le linee, le tinte, le atmosfere. Che possono essere oneste o ruffiane, arroganti o poetiche. Chissà quanti di noi si sono sentiti come gli apolitici che c’erano anche un tempo e che quando morì Berlinguer ci rimasero piuttosto male, anche se non capivano bene perché.

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