P er carità, è pur sempre il governo dei banchi a rotelle, eppure alla fine tra un bonus e un aiuto dall'Ue il Conte bis non sembrava così malmesso. E invece, guarda i casi della vita, domenica il premier ha ricicciato il ponte sullo Stretto (anche se lui pensa più a un tunnel sottomarino, in confidenza).

Diciamocelo: di solito non è un bel segnale. Da quando Berlusconi lo sciorinò fra un milione di posti di lavoro e l'altro, e poi Renzi lo resuscitò per dare un tocco vintage alla sua collezione di fesserie - e sappiamo come è finita, in un caso e nell'altro - promettere il Ponte a gente che ha altro per la testa ha il sapore di un colpo della disperazione, uno sparo nel buio, una formuletta magica di cui il prestigiatore è il primo a dubitare. In una scala ideale delle ultime spiagge il Ponte è un gradino sopra il “mi appello alla clemenza della corte” e appena uno sotto il “cambierò, ti giuro che cambierò”.

Ormai nel nostro immaginario questo povero Ponte assomiglia a un coniglio sempre più logoro e depresso, e quando il mago lo afferra per le orecchie e lo caccia fuori da un cilindro liso, il pubblico nemmeno simula più un “Oooh” di cortesia, ma si sgranchisce sulle poltrone perché sa che lo show sta finendo. E intanto borbotta: «Ma pure questi? Ma perché non la lasciano in pace quella povera bestia?».

CELESTINO TABASSO
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