«Un traffico di container così non lo avevamo mai visto». Il governatore della Liguria Giovanni Toti gongolava qualche sera fa al TG2 Post durante l'approfondimento dedicato alla ricostruzione del ponte Morandi. Nonostante una viabilità complicata, infatti, nell'ultimo mese a Genova hanno movimentato più di 240 mila teus, un record storico. Che invidia, pensando al deserto dei tartari dalle parti di Macchiareddu. Già, Genova. I nostri destini si incrociarono alla fine degli anni '90. Obiettivo: dare un futuro a un terminal costato più o meno 800 miliardi di lire. I genovesi dell'allora Sech (ma il patron, Luigi Negri, è nato a Sassari), in società con il nostro Casic, entrarono in sintonia con gli australiani di P&O Ports. Il 26 novembre 1997 (c'erano Federico Palomba, Sandro Usai, Italo Ferrari) l'annuncio in pompa magna nel capoluogo ligure: Cagliari intercetterà le "navi madre" mosse da P&O e i contenitori, trasferiti su imbarcazioni più agili, viaggeranno dalla Sardegna verso Genova, la porta d'Europa grazie al sistema ferroviario.

C'ero anche io, quel giorno, a Palazzo San Giorgio, splendida sede dell'Autorità portuale di Genova. Ricordo un clima di festa. Le navi sembravano già all'orizzonte di Giorgino. In realtà, con Gioia Tauro che da tempo ci soffiava il business, per il primo attracco si aspettò quasi un anno. Nonostante la partenza lenta, il nostro terminal ha macinato numeri e creato posti di lavoro. Sempre e comunque al di sotto delle potenzialità, soprattutto per il mancato decollo della zona franca doganale.

A rileggere il libro dei sogni, il porto canale avrebbe dovuto ospitare, nei grandi spazi dietro la banchina, una serie di capannoni destinati all'assemblaggio di semilavorati, da riesportare nel mondo senza imposte. C'era persino (e c'è ancora!) una società di gestione, la Cagliari Free Zone. L'amministratore unico, va riconosciuto, rinuncia allo stipendio. Il mondo cambia alla velocità della luce, figurarsi le strategie commerciali di chi (vedi i tedeschi di Hapag-Lloyd) ha prima sedotto e poi abbandonato il nostro terminal, nel disinteresse o quasi della politica. Risultato: Cagliari è sparita dalle rotte del transhipment (Far East, Stati Uniti, Europa), a vantaggio di Livorno. E meno male che ci hanno sempre detto «beati voi che siete al centro del Mediterraneo».

Oggi al capezzale dei 700 disoccupati si sono schierati tutti, ad eccezione - codici alla mano - della Sovrintendenza, braccio territoriale del ministero dei Beni culturali. Per rilanciare l'appeal della nostra banchina servono investimenti, soprattutto per realizzare gru adeguate alle nuove portacontainer. Ma dalle parti di Giorgino-Macchiareddu non si può toccare nulla. Anche piantare uno spillo equivarrebbe a un abuso edilizio. Provo a semplificare. Nell'anno del Signore 1981 la Sovrintendenza concesse l'autorizzazione paesaggistica per realizzare il porto canale di Cagliari. Concessione annullata dal Consiglio di Stato nel 2000, quando il terminal c'era già. Babbo morto, allora, voi direte. Macché: i funzionari dei Beni culturali spiegano che la legge Galasso (1985) e il (solito) Ppr di Soru (2006) impediscono il via libera per qualsiasi intervento. E, fanno notare per iscritto, sarebbe strumentale addebitare al Mibac la crisi del porto. Sul punto, a parte l'assenza di garbo istituzionale (il ministro Alberto Bonisoli, M5S, tace), hanno ragione. Ma il problema resta. Se non si muoverà nulla, rimarrà il deserto dei tartari. Film già visto, per esempio, con la strada a quattro corsie che finisce nel nulla tra Sassari e Alghero. O con lo stadio oggi topaia di Is Arenas, a Quartu. Costi sociali che lo Stato (o singoli apparati che siano) non può permettersi. Che invidia, caro governatore Toti, per quel record fresco fresco di teus. A ricordare quel giorno di 22 anni fa, ci ritornano in mente i grandi Bruno Lauzi (bonanima) e Paolo Conte. Ricordate il refrain? "Ma quella faccia un po' così, quell'espressione un po' così, che abbiamo noi, mentre guardiamo Genova…". Già, quale espressione, vi chiederete? Visti i risultati, va bene da imbecilli? Da idioti sarebbe meglio.

Emanuele Dessì
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