"Sono orgogliosa di essere nata in Sardegna!". Nonostante abbia passato buona parte della sua vita lontano dall'Isola e oggi sia curatrice del Dipartimento di Architettura e Design e Direttrice del Dipartimento Ricerca e Sviluppo al Museum of Modern Art (MoMA) di New York, Paola Antonelli non ha reciso il legame con l'Isola, anzi: "Sono nata a Sassari perché mio padre, chirurgo e professore universitario, lavorava in quella città. Quindi ho avuto la fortuna di nascere nell'Isola e di viverci per un paio di anni. Poi ci siamo trasferiti a Ferrara e a Milano. Con la Sardegna però ho conservato un rapporto forte, particolare".

Ce lo racconti…

"Beh, quando sono in Sardegna sto bene come in pochi altri posti e devo dire che ho preso le decisioni più importanti della mia vita sugli scogli dell'Isola".

Un'installazione dalla Triennale di Milano (foto Gianluca Di Ioia)
Un'installazione dalla Triennale di Milano (foto Gianluca Di Ioia)
Un'installazione dalla Triennale di Milano (foto Gianluca Di Ioia)

Per esempio cosa ha deciso?

"La scelta che mi ha cambiato la vita, quella di lasciare gli studi di Economia per passare ad Architettura, l’ho fatta mentre mi trovavo a Isola Rossa. Che dire… quando sono nel mare della Sardegna mi pare di essere nel mio brodo primordiale. Sono felice come non mi succede spesso altrove!".

Insomma, è merito anche del nostro mare se oggi Paola Antonelli è considerata una delle persone più influenti a livello mondiale nel mondo dell'arte. Non certo a caso a lei è stata affidata la cura della XXII Esposizione Internazionale della Triennale di Milano, aperta fino al prossimo 1 settembre 2019. Titolo dell'esposizione "Broken Nature: Design Takes on Human Survival", un evento che si presenta come un'indagine approfondita sui legami che uniscono gli uomini all'ambiente naturale, legami che nel corso degli anni sono stati profondamente compromessi, se non completamente distrutti.

Fulcro dell'esposizione milanese è una grande mostra tematica a cui si aggiungono ventuno partecipazioni internazionali che hanno richiamato architetti e designer da ogni angolo del mondo, l'installazione "The Great Animal Orchestra" (un'immersione nel cuore dei suoni della natura realizzata da Bernie Krause e United Visual Artists) e la mostra speciale "La Nazione delle Piante", curata da Stefano Mancuso. Soprattutto la XXII Triennale di Milano, partendo da vari progetti di architettura e design, prova a mettere in luce oggetti e strategie in grado proporre un nuovo equilibrio tra uomo e natura.

Installazione dalla mostra "Broken nature" (foto Gianluca Di Ioia)
Installazione dalla mostra "Broken nature" (foto Gianluca Di Ioia)
Installazione dalla mostra "Broken nature" (foto Gianluca Di Ioia)

Ma come è possibile mettere assieme design e natura? Non sono mondi troppo distanti? Ne parliamo ancora con Paola Antonelli: "In Italia molti pensano che il design sia solo rappresentato dai mobili. In realtà il design ha a che fare con ogni aspetto della nostra vita: è il telefonino che usiamo, l'interfaccia del bancomat con cui preleviamo denaro. È sbagliato relegarlo a una semplice questione di stile, decoro… è un atteggiamento sorpassato perché il design è parte della vita di tutti i giorni. E cosa c'è di più urgente nella nostra vita se non la questione ambientale? Avere l'occasione di una Triennale, avere il budget e non cogliere la possibilità di parlare di un tema così urgente sarebbe stato un vero spreco!".

Questa concezione del design come qualcosa di accessorio o elitario è tipicamente italiana?

"Ogni Paese ha una sua concezione di design. In Olanda e Gran Bretagna viene concepito in maniera molto ampia e comprensiva mentre negli Stati Uniti il design è molto legato al mondo dell'arte, lo si intende spesso come decorazione e oggettistica. In Italia la moda e l'industria del mobile sono così forti che hanno in un certo senso inglobato il concetto di design. È nato il cliché del design italiano come sinonimo di Made in Italy. Il design però è molto di più di moda e mobili. Quando le persone vengono in Triennale si ritrovano trasportati in un mondo in cui il design è coinvolto in ogni aspetto della nostra vita. Insomma, i visitatori non sentono di assistere a qualcosa di elitario o estraneo".

Un'altra suggestiva immagine dalla rassegna (foto Gianluca Di Ioia)
Un'altra suggestiva immagine dalla rassegna (foto Gianluca Di Ioia)
Un'altra suggestiva immagine dalla rassegna (foto Gianluca Di Ioia)

Come si prepara un grande evento come una Triennale?

"Intanto non da soli. Accanto a me hanno lavorato Ala Tannir, Laura Maeran, Erica Petrillo e Laurie Mandin, il mio team curatoriale. Detto questo, io tendo a partire con circa un anno di anticipo rispetto all'evento con un sito in cui pubblico post per alimentare il dialogo con il pubblico, così da avere tempo per poter organizzare alcuni simposi, incontri che aiutano tantissimo a ragionare e a costruire il catalogo. Insomma, faccio molta ricerca e trovo sempre cose che non mi aspettavo all'inizio".

Questa volta cosa ha scoperto in particolare?

"Che avevo molte lacune nel mio modo di concepire la natura. Avevo una base da cui partire però anche tantissimo da imparare. Ho scoperto punti di vista che non mi aspettavo: sono partita con l'idea di una esposizione dedicata al tema della difesa della specie umana per giungere a una messa in discussione della sopravvivenza stessa dell'uomo, a chiedermi cosa sia più giusto per il Pianeta. Durante la preparazione c'è stata una maturazione dentro di me che mi ha stupito".

Broken Nature, installazione (foto Gianluca Di Ioia)
Broken Nature, installazione (foto Gianluca Di Ioia)
Broken Nature, installazione (foto Gianluca Di Ioia)

La Triennale ha subito accettato il tema da lei proposto?

"Sì, senza resistenza. Era una tematica che avevo proposta al MoMA nel 2013 ma non era il momento giusto. Evidentemente nel caso della Triennale i tempi erano maturi".

Ma è davvero tanto diverso lavorare negli Stati Uniti e in Italia?

"Oh, certo. Negli Stati Uniti, per esempio, l'organizzazione è molto strutturata, difficilmente ci sono intoppi, c'è molta chiarezza e molta attendibilità nelle informazioni che vengono date. Questa è una forza degli americani ma anche una loro debolezza perché a volte c'è bisogno della 'fluidità', della capacità tutta italiana di far funzionare comunque le cose. Di differenze così ce ne sono molte e posso dire di essere veramente fortunata a poter lavorare in entrambe le realtà".

Dato che può osservare il nostro Paese anche da lontano, secondo lei esiste ancora il mito del Made in Italy?

"Credo che l'immagine del Made in Italy sia un po' datata, legata a eccellenze italiane oramai vecchie di una quindicina di anni. Perché quando si parla di Made in Italy non si cita qualcosa che è alla base della cultura contemporanea come Arduino? Si tratta di una piattaforma hardware per la creazione di migliaia di progetti e oggetti che è stata co-inventata da italiani ed è qualcosa di realmente rivoluzionario. Perché non pensare a innovazioni di questo tipo come Made in Italy? Arduino non è forse più importante di un divano, pur bellissimo, oppure di una meravigliosa giacca di pelle?".
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