Nessuna attenuante per chi uccide un malato terminale per compassione.

Lo ha detto la Corte di Cassazione, esprimendosi sul caso di un 88enne toscano che, dopo un'assistenza di anni alla moglie gravemente malata di Alzheimer, le aveva sparato nel 2007 tre colpi di pistola.

Un gesto dettato dalla disperazione per la vita condotta da entrambi, e dalla pietà per quella donna ormai consumata dalla malattia. Per l'omicidio l'uomo è stato condannato a 6 anni e 6 mesi, ma tramite i suoi legali ha fatto ricorso: "Ha agito per motivi di particolare valore morale o sociale", la tesi degli avvocati.

Tesi respinta in pieno dai giudici in Cassazione.

Non ci può essere, dicono, uno "sconto etico" per chi toglie la vita a una "persona che si trovi in condizioni di grave ed irreversibile sofferenza fisica" anche se chi lo fa pensa di far cessare quella sofferenze: "Nella attuale coscienza sociale il sentimento di compassione o di pietà è incompatibile con la condotta di soppressione della vita umana verso la quale si prova il sentimento medesimo".

"Questa nozione di compassione - proseguono - è attualmente applicata con riguardo agli animali da compagnia, rispetto ai quali è usuale, e ritenuta espressione di civiltà, la pratica di determinarne farmacologicamente la morte in caso di malattie non curabili".

"Nei confronti degli esseri umani - la conclusione - operano i principi espressi dalla Carta costituzionale, finalizzati alla solidarietà e alla tutela della salute".

(Unioneonline/D)
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