«Assolto». Beniamino Zuncheddu espira tutta l’aria del mondo e cede alle lacrime. Giusto il minimo sindacale prima di affrontare la tempesta di abbracci e microfoni: «Grazie, grazie a Dio». Nessun altro? «La mia famiglia».

L’ex servo pastore di Burcei si affaccia alla nuova vita dopo quasi 33 anni di carcere. Inchiodato all’ergastolo dall’unico sopravvissuto alla strage di Sinnai, ormai è un cinquantanovenne col viso e il corpo modellati dalla sofferenza. Pochi minuti dopo aver riottenuto la patente di uomo libero, ufficialmente vittima di una clamorosa cantonata giudiziaria, non ha voglia di fare l’autopsia alla sentenza di condanna defunta per volere della Corte d’Appello: «A cosa serve? È stato un errore, lo so da sempre. Chissà quanti casi come il mio ci sono in giro per l’Italia».

Una persona che oggi avrebbe voluto vicina?

«Mio padre, che è morto qualche anno fa. Mi sarebbe piaciuto se fosse stato in quest’aula con me».

Quanti amici le hanno voltato la faccia?

«Qualcuno ci sarà pure stato, magari solo per dimenticanza. Quelli veri però sono rimasti tutti con me».

I nemici?

«Non ne ho mai avuti».

Cos’è la la libertà per un ergastolano?

«Tante cose, tutte irraggiungibili. Il desiderio di fare una passeggiata con amici, gesti piccoli come bere una birra all’aperto in compagnia, che per chi non lo può fare è un passo enorme».

Ha avuto una fidanzata in questi anni?

«Non c’è più nulla, finito».

Qualche donna le scriveva in cella?

«È capitato che mi spedissero delle lettere, solo a titolo di passatempo. Nulla di impegnativo».

Crede in Dio?

«Da sempre, e qualche preghiera l’ho pure fatta. Non costa niente, di sicuro non ti può fare del male».

È arrivato alla fede per disperazione?

«No, il motore non è stata la situazione in cui mi sono trovato, sono credente senza particolari ragioni».

L’ultima vacanza che ricorda?

«Mai uscito dalla Sardegna, non avevo il tempo. I primi viaggi li ho fatti per venire a Roma a seguire il processo: roba di un giorno, aereo-palazzo di giustizia-albergo-aereo».

Si concederà un viaggio?

«Prima devo risolvere le questioni di salute: ho un problema all’occhio e una serie di guai che non mi lasciano tranquillo. Poi si vedrà, c’è tempo».

Ha dato l’ultimo saluto a Gigi Riva?

«Non sono mai stato appassionato di sport, quindi no, ho solo letto la notizia sul giornale»

Cosa le è rimasto della vita congelata in un ergastolo?

«Un buco nero che ha inghiottito ogni cosa, ma ormai è nel passato. Voglio guardare avanti senza perdere altro tempo. Se Dio mi aiuta la vita inizia adesso».

Si è mai dato una spiegazione di ciò che è accaduto?

«Molte, ma non è servito: non ho mai capito davvero perché sia successo, perché proprio io?»

Un errore che non si perdona?

«Al momento francamente non riesco a pensare a uno sbaglio così grave che posso aver commesso nella vita».

Ha paura?

«Di cosa? Ormai ho toccato il fondo, sono risalito, risceso e risalito. Cosa mi può spaventare? Non ho mai fatto del male, non ho nulla da temere».

Incontrerà Luigi Pinna che con la sua testimonianza l’ha fatta condannare e poi assolvere?

«Se capitasse non avrei problemi».

Neppure un pizzico di rancore?

«No».

L’ha perdonato?

«Sì, assieme a tanti altri. Non muoio dalla voglia di vederlo e neppure spero che scompaia dal mondo, provo indifferenza. So che Pinna è una pedina usata contro di me ma non è stato lui a volermi fare del male».

Il poliziotto Mario Uda?

«Qui il discorso cambia. Non è un uomo, certe cose non le fanno neppure gli animali. La cosa grave è che a quei tempi rappresentava la legge, e guarda com’è andata a finire».

Crede nella giustizia?

«Sì, anche se a volte si commettono errori. Chissà quante persone si sono trovate nella mia situazione e magari sono state meno fortunate. Tanti non hanno la forza che serve per venire fuori da questo incubo».

I farmaci antidepressivi sono il segreto per non impazzire in carcere?

«Ho rinunciato alle medicine: quella roba non fa bene, complica la situazione».

Le trappole della mente da evitare?

«Ciascuno ha il suo sistema per mantenere la lucidità, lo costruisci nel tempo».

Quante volte ha pensato di scappare?

«Neppure una, non mi interessava».

Problemi con gli altri detenuti?

«Rapporti ottimi, anche con le guardie».

Lei era nel girone infernale di Buoncammino.

«Quando c’erano le bocche di lupo e il sovraffollamento era dura. Però le carceri sono tutte brutte, non c’è neppure bisogno di dirlo».

Che lavoro le piacerebbe?

«Non ho dubbi: il pensionato».

Lascerà Burcei?

«Non ci penso neppure, il mio mondo è lì».

Ha mai pensato di confessare per ottenere la libertà condizionale?

«No no no, la coscienza è soltanto una. Puoi anche ottenere di tornare a casa ma senza l’assoluzione una volta fuori ti punteranno sempre il dito contro».

Deve dire grazie a?

«Mia sorella Augusta, mio cognato Piero, mia nipotina Maria Luigia e mio fratello Damiano. E anche a chi ha creduto alla mia innocenza e mi ha difeso, a tutto il paese, ai detenuti che mi conoscono e a tutti gli agenti penitenziari che ho incontrato».

Farà la causa per il risarcimento?

«Certo, ma è un argomento di cui oggi non mi voglio occupare. Ci sarà tempo».

Alle 21.40 vuole solo lasciarsi alle spalle toghe e cronisti. Nella notte romana, fuori dal palazzo di giustizia, il primo anticipo di libertà ha le sembianze della delegazione burcerese in trasferta che lo accoglie al grido di «Beniamino olè». Lo abbracciano, lui è in piena overdose di felicità: «È bellissimo».

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