Lo scorso 19 maggio il ministro Calderoli, in occasione dell’incontro con l'Assemblea Sarda, o meglio, alla presenza dei soli Consiglieri espressione della maggioranza per essersi, quelli di minoranza, risolti nel senso di non intervenire, ha dichiarato, secondo quanto riportato dai media, che «la Sardegna è una delle Regioni che più può beneficiare della legge» sulla autonomia differenziata, siccome «essendo una regione a Statuto speciale un po’ particolare – perché ha competenze uguali o inferiori rispetto alle regioni a statuto ordinario – potrebbe trarre benefici non solo per garantire gli stessi servizi che vengono garantiti su tutto il territorio nazionale, ma anche in una prospettiva di crescita».

La affermazione è senza dubbio d’effetto sul piano dell’impatto discorsivo, ma, siccome non arricchita di ulteriori specificazioni, quanto meno per quanto è dato sapere, sulla portata pratica dei suoi contenuti, risulta per i più di assai difficile apprezzamento.

Non si tratta di voler essere necessariamente polemici ma, ammesso e forse non concesso che la nostra Sardegna avrebbe “competenze uguali o inferiori rispetto alle regioni a statuto ordinario” (stando alle parole del Ministro), si tratta solo della esigenza di capire concretamente, se possibile, quali potrebbero essere gli effetti diretti di una riforma di siffatta consistenza e di dubbia costituzionalità. E, considerate le parole del Ministro, si tratterebbe, inoltre, e soprattutto, di comprendere in che cosa sarebbe consistita fino ad oggi la nostra specialità e autonomia.

Dicendolo altrimenti: in disciplina di regionalismo differenziato, quale sarebbe il senso della sopravvivenza delle Regioni Autonome a Statuto Speciale?

Mutatis mutandis il regionalismo differenziato, se proprio andassimo ad affinare il ragionamento, renderebbe probabilmente priva di necessità la contestuale esistenza di Regioni Autonome a Statuto Speciale.

Intanto, e di conseguenza, perché il disegno di regionalismo differenziato caldeggiato dalla Lega, non potrebbe, per ciò stesso, e sulla base della portata di quelle stesse dichiarazioni, essere portato avanti se non dopo aver avviato una doverosa consultazione popolare sul punto anche in considerazione del periodo critico che in questi ultimi anni il Paese tutto, nella sua interezza, si è ritrovato suo malgrado a dover affrontare, ed ancora sta affrontando.

Quindi, perché le dinamiche di siffatta riforma, lungi dall’essere di agevole comprensione financo per menti esperte e preparate, di certo risultano, con buona verosimiglianza, di assai difficile accoglimento sul piano generale della popolazione, con ogni immaginabile conseguenza.

Infine, perché, ad ogni buon conto, e anche a tutto voler concedere, appare innegabile che la approvazione del progetto di regionalismo differenziato risulterebbe davvero impattante nelle sue conseguenze per la innegabile sua incidenza non solamente sul piano dei diritti singolarmente considerati (come da più parti, ed in varie occasioni, variamente sottolineato), i quali potrebbero finire per essere declinati diversamente a seconda del territorio di intervento, ma anche e soprattutto sulla articolazione normativa delle differenti e molteplici materie di incidenza, che potrebbero andare ad essere disciplinate quando in un modo quando nell’altro.

In quale maniera, dunque, quel progetto Calderoli può, allo stato attuale, portare con sé beneficio sul piano amministrativo territoriale e più specificatamente locale? Tanto più allorquando, per poter procedere ad una riforma di tal fatta, sarebbe quanto meno doveroso ri-allineare il Paese sul piano del godimento delle risorse e della fruizione dei servizi, garantendone da nord a sud la parificazione o quasi. E ancor di più allorquando, allo stato attuale di “disallineamento” esistente tra le varie e molteplici porzioni del territorio, la approvazione di tale progetto, altro non farebbe, probabilmente, se non incidere sulla unitarietà del Paese.

Il decentramento contemplato dall’articolo 5 della nostra Carta Costituzionale, per intenderci, risulta inserito in un contesto di significato assai più ampio, ossia quello preminente, ed insuperabile di unità e indivisibilità della Repubblica anche e specificatamente nella condivisione di principi, valori, diritti: unità nella diversità, ma pur sempre unità, la quale, evidentemente, lungi dal poter essere concepita solo sul piano squisitamente geografico, comprende tutti quei meccanismi decisionali utili al migliore e parallelo governo del perimetro nazionale.

Ciò che occorrerebbe evitare è che il regionalismo differenziato possa in qualunque modo contribuire a favorire la formazione e la contemporanea esistenza di molteplici realtà regionali, tutte diverse nelle loro competenze specifiche all’interno di un unico Stato declinato a più velocità.

Nulla quaestio, dunque, sul decentramento amministrativo che, nella sua migliore articolazione potrebbe ben favorire lo snellimento burocratico, ma nessun pregiudizio dovrebbe incombere sulla dinamica unitaria delle politiche e della amministrazione generale a livello centrale.

Il regionalismo differenziato non sembra dunque questione da sottoporre al legislatore nel momento contingente, perché necessita non solo di un ampio dibattito chiarificatore che sia idoneo a far comprendere a tutti, per primi ai cittadini, la portata e gli effetti di siffatto progetto, ma anche e soprattutto, preliminarmente, di “ricostruire” il parallelismo funzionale tra le diverse realtà territoriali, portando a parificazione e ad una unica velocità tanto il nord, quanto il sud del Paese e le Isole. E sia data la parola ai cittadini sui quali ricadrebbero gli effetti diretti dell’attuazione della riforma.

Giuseppina Di Salvatore – Avvocato, Nuoro

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