« C ari amici sardi, ma di che vi lamentate? Ancora con questa storia dei trasporti, dei vostri politici che non riescono a farsi, non dico ricevere, ma neppure ascoltare da ministri e parlamentari? E poi questi pastori che non si arrendono mai chiedendo ciò che sarebbe giusto avere. Siete pochi e divisi, voi sardi, e a Roma contate appunto per i voti che rappresentate. Non parliamo di Bruxelles, la Sardegna manco sanno dov'è. Eppure io queste cose ve le dicevo e scrivevo molti anni fa. Ma mi sembra che il tempo non sia passato. Cosa è cambiato?».

Sembra di sentirlo Indro Montanelli, scomparso nel 2001 a 92 anni, il grande giornalista tosco-milanese, lui che alla nostra Isola era legatissimo per averci vissuto da giovane studente a Nuoro dove il padre era preside del liceo e poi per aver dedicato tanti articoli e un memorabile reportage sul Corriere della Sera nel 1963. «Parlo da sardo perché di Sardegna mi sento intriso», scrisse anche sul nostro giornale in un esclusivo editoriale a proposito del suo viaggio nell'Isola.

Ma già nel 1960 aveva inserito due brevi capitoli in un libretto oggi quasi introvabile. “Tagli su misura” è il titolo, uscito nel 1960 (Rizzoli editore) con una trentina di ritratti di leader politici mondiali incontrati in quei tempi. Tra i grandi protagonisti del secondo Novecento - incredibile a leggere - ci ha infilato alcune figure popolane della Nuoro che aveva conosciuto da ragazzo e in seguito, durante le periodiche visite nell'Isola.

T ra queste pagine spunta “Calvia Gavino”, pungente ritratto del custode per sessant'anni del nuraghe all'epoca meglio conservato e conosciuto, quello di Santu Antine di Torralba. Il breve racconto è un apologo del sardo di fronte al potere di Roma, dall'Unità alla fine degli anni Cinquanta. Ma potrebbe essere stato scritto in questi giorni.

«Gavino - scrive Montanelli - è uno dei pochi che portano ancora sa berritta, ha un bel paio di baffi bianchi sul viso cotto dal sole, e quando gli chiedo come ha fatto a mantenersi così bene in salute, mi risponde: “Non mi sono mai impicciato dei fatti altrui”. Gli danno di stipendio quattromila lire al mese per questo immobile lavoro».

Gavino non ricorda con esattezza in che anno iniziò il suo mestiere. Ricorda soltanto che in quel momento al Governo c'era Crispi, il quale un giorno venne a visitare il nuraghe. Ci venne a cavallo fra uno stuolo di personaggi minori fra cui un archeologo che gli fece una lunga spiegazione. Crispi ascoltò con molto interesse. Nell'andarsene strinse la mano a Gavino e gli chiese quanto guadagnasse: "Sei lire e 54 centesimi al mese, meno le trattenute", rispose il custode. “Così poco?”, sobbalzò il presidente del Consiglio. E ingiunse al segretario di provvedere.

Il racconto scorre sul ricordo delle altre visite illustri, con un copione quasi simile tra una e l'altra, mentre gli anni passavano e l'Italia cambiava. Dopo Crispi annunciò la visita il presidente del Consiglio Giovanni Giolitti, ma la cancellò dopo aver saputo che non esisteva una strada e che ci sarebbe dovuto andare a cavallo. Venne invece re Umberto con la regina Margherita che, con la sua bellezza, imbambolò Gavino. La sovrana gli chiese di dov'era e quanto guadagnasse. Anche lei si meravigliò del misero stipendio, ordinando che si provvedesse quanto prima. Trascorsero gli anni e giunse un altro re, Vittorio Emanuele III, che si interessò molto al nuraghe e per niente a Gavino che continuava a ricevere lo stesso stipendio. L'anno dopo finalmente ecco Giolitti ridiventato capo del Governo, in carrozza perché una stradina era stata fatta.

«Per parecchi anni - prosegue Montanelli - non venne nessuno, tutto rimase come prima. Benché il suo stipendio fosse aumentato a 46 lire e 45 centesimi, Gavino non aveva l'impressione di vivere in condizioni più floride di prima. Anzi. Così quando arrivò in pompa magna Mussolini l'anziano custode non ebbe il coraggio di chiedergli niente. Il futuro duce (non lo era ancora) invece chiamò non uno, ma tre segretari ordinando di prendere provvedimenti. Gavino corse ad iscriversi al Fascio, ma lo stipendio e le cose restarono uguali. Passò la guerra, finché un giorno venne un nuovo re che non si chiamava re, ma presidente della Repubblica. Arrivò in auto perché ora esisteva una comoda strada. Alla fine chiese a Gavino l'età e quanto guadagnasse. “Perbacco” rispose con ammirazione il presidente. Ma non accadde niente. È stato l'ultimo grande personaggio che Gavino ha visto. E da allora si è formato la convinzione che anche i fatti propri, per gli altri, sono fatti altrui».

Che direbbe oggi Montanelli? Probabile che i trasporti e il prezzo del latte siano fatti nostri e non di Roma. Meno che meno di Bruxelles. O no?

CARLO FIGARI

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