Presidenziali americane: Donald, Kamala, e l’alternativa che non c’è
Uno scenario in divenire, e in cui a pesare potrebbe essere ancora una volta il voto popolarePer restare aggiornato entra nel nostro canale Whatsapp
Chi sarà il quarantasettesimo Presidente degli Stati Uniti d’America? Donald o Kamala? Kamala o Donald? Sembrerebbe mancare l’alternativa che, forse, nella circostanza, sarebbe stata utile ad offrire una possibilità “altra” ad una competizione non troppo innovativa e neppure, forse, troppo nuova.
Le elezioni, come noto, si terranno domani 5 novembre 2024 e, contestualmente, nel corso della stessa giornata, si terranno pure le elezioni per la Camera dei Rappresentanti ed il Senato oltre che le elezioni governatoriali. Un sistema senza dubbio complesso, ma data l’estensione del territorio interessato, non avrebbe potuto essere altrimenti. La polarizzazione è evidente, ma forse, poco rappresentativa rispetto all’attuale contesto sociale ed economico americano che certamente, non sembrerebbe neppure lontanamente paragonabile a quello in essere negli anni Ottanta, allorquando nell’ideale collettivo statunitense, la figura di Ronald Reagan, presidente dal 1980 al 1988, si affermò in tutta la sua influenza, al punto tale che con buona verosimiglianza parrebbe poter tuttora essere ricordata quale corrispondente ideologico di un’America forte ed influente siccome in grado di indirizzare l’agire politico e strategico degli Alleati, economicamente ricca, decisamente vincente nelle scelte di politica internazionale e nella gestione dei conflitti. “Let’s make America great again” era il suo motto.
Ad oggi, al netto dell’appeal che la nuova figura presidenziale saprà esercitare, l’ambito d’azione del nuovo Presidente sarà strettamente proporzionale, e/o inversamente proporzionale (lo si vedrà alla fine), rispetto alla componente del gruppo di potere che si andrà a delineare all’esito delle elezioni, ed in particolare, agli equilibri che si andranno a concretizzare fra la Casa Bianca in sé e per se considerata ed il Congresso, oltre che fra le due Camere di questo, fra i due partiti maggiori, Repubblicano e Democratico e, al loro interno, fra i diversi gruppi che li animano e che ben potrebbero condizionarne in maniera maggiormente stringente le scelte. Circostanza, quest’ultima, che rende piuttosto incerta la linea politica e direttiva che si andrà a delineare. In questo senso, potrebbe essere il voto popolare a fare la differenza e a condizionare più sensibilmente le scelte in ambito politico. Se proprio volessimo essere critici rispetto ad una campagna elettorale piuttosto accesa nei toni ma poco convincente sul piano dei programmi, benché le rispettive posizioni si pongano su un livello dicotomico competitivo netto sussumibile nell’appartenenza ai rispettivi schieramenti, tuttavia sul piano pratico parrebbe rinvenire una scarsa corrispondenza, siccome la diversità che si vorrebbe proclamare a voce in realtà parrebbe non definire, malgrado appunto i proclami annunciati, taluni punti cardine dell’azione politica futura di ciascuno dei due candidati: sul piano squisitamente internazionale, ad esempio, quale sarà l’effettivo impianto contenutistico dell’agire della nuova amministrazione, qualunque essa sia? Quale potrà mai essere il ruolo del colosso americano che negli anni passati ha potuto contare su una egemonia (potremmo dire) incontrastata nel decidere gli equilibri mondiali? Quali potranno mai essere i rapporti tra gli Stati Uniti d’America e il Vecchio Continente, sempre meno incidente sembrerebbe, nel nuovo ordine internazionale all’interno del quale, con l’emersione di potenze nuove e tecnologicamente competitive come ad esempio la Cina, ciascuno dovrà, verosimilmente, ritagliarsi il proprio spazio?
Si tratta a ben considerare di uno scenario tutto in divenire e che potrebbe forse sorprendere laddove a prevalere nella competizione elettorale fosse Kamala Harris per essere, nell’ipotesi di vittoria, il Primo Presidente degli Stati Uniti d’America donna asio-americana, e la seconda afroamericana dopo l’esperienza presidenziale di Barak Obama nell’anno 2008. A sorprendere sarebbe, insomma, solamente il valore ideologico di una vittoria al femminile prima ancora che politico, siccome, con buona verosimiglianza, l’amministrazione Harris, se così dovesse essere e il pronostico non può che essere totalmente incerto, non si discosterebbe da quella finora condotta da Joe Biden. Ma la domanda potrebbe verosimilmente essere un’altra: chi veramente tra Donald Trump e Kamala Harris incarna gli ideali del cosiddetto “sogno americano” sempre che ancora oggi si possa riuscire a delinearne i contorni? Forse nessuno dei due e, probabilmente, per la mancanza in una pur accesissima competizione elettorale di quell’alternativa in qualche modo necessaria ad offrire lo stimolo ulteriore, quella capace di indicare la cosiddetta proverbiale terza via da percorrere.
Per l’intanto, non resta che attendere, e probabilmente, a prescindere dal vincitore o dalla vincitrice, nulla di nuovo potrebbe prospettarsi sotto il sole.
Giuseppina Di Salvatore – Avvocato, Nuoro