Mentre il mare continua a restituire i corpi senza vita dei migranti sulla spiaggia di Cutro, nelle ultime ore, al largo della Libia, si sarebbe consumato, come riportato dalle agenzie di stampa, un nuovo naufragio.

A nulla serve recriminare su chi avrebbe dovuto fare cosa e il dibattito politico sul punto non sembrerebbe apparire affatto concludente. Il continuo rimpallo di responsabilità non appare esercizio utile a risolvere l’annosa questione e a garantire la salvezza di quanti si avventurino per mare. Probabilmente sono state le scelte politiche alternatesi nel corso degli anni a non essere state risolutive.

In passato la Corte europea dei diritti dell’Uomo di Strasburgo ha condannato all'unanimità l'Italia per i respingimenti verso la Libia in merito al caso Hirsi. E non si può certo pretendere di affermare che il suddetto fenomeno dell’arrivo via mare di rifugiati e migranti sia nuovo e/o inedito. Tutt’altro.

Perché da anni e anni e fin dai tempi più remoti sono state innumerevoli le persone, in tutto il contesto planetario, che hanno dovuto assumere, probabilmente loro malgrado, la determinazione di mettere a repentaglio la propria vita, il proprio tutto, a bordo di navi e/o altre imbarcazioni di fortuna, per andare in cerca di lavoro, di condizioni di vita maggiormente apprezzabili, di nuove ed inedite opportunità di formazione, oppure per cercare di ottenere protezione internazionale dalla persecuzione o da qualsivoglia altra forma di minaccia alla propria vita, libertà o sicurezza, spesso affidando il proprio destino nelle mani di trafficanti criminali senza scrupoli.

Boat people”, per dirla in breve secondo una definizione divenuta comune, perché di questo si tratta, ad indicare, in buona sostanza, tutti coloro che abbiano deciso in passato, o decidano oggi, di avventurarsi per mare in siffatte precarie condizioni. Al diritto di queste persone di andare alla ricerca di condizioni di vita maggiormente apprezzabili, sembrerebbe fare da contraltare il dovere degli Stati di attivarsi per renderne attuabili le condizioni. Probabilmente, come da più parti suggerito, sarebbe il caso di implementare i corridoi umanitari, e/o predisporre canali sicuri di recupero di quanti intendano mettersi in viaggio per raggiungere lidi sicuri ed intraprendere nuove esperienze di vita.

Del resto, proprio quello di salvare la vita in mare rappresenta e sintetizza un inviolabile obbligo degli Stati tutti e si impone, o perlomeno dovrebbe imporsi, su ogni potenziale accordo bilaterale indirizzato a contrastare la immigrazione clandestina e/o ritenuta tale. Tanto è vero che la potestà legislativa dello Stato (nella specie quello Italiano), per quanto consta, subisce il limite imposto dalle disposizioni contenute nelle Convenzioni Internazionali ratificate e dei Regolamenti Europei, conseguendone che in forza del disposto degli articoli 10, 11 e 117 della nostra Carta Costituzionale, le stesse Convenzioni Internazionali ed il Diritto Internazionale non possono in alcun modo andare incontro a deroghe e/o limitazioni di sorta provenienti da scelte discrezionali dell’autorità politica.

Tale obbligo si basa, tra gli altri, su due testi fondamentali: intanto, la Convenzione delle Nazioni Unite sul diritto del Mare del 1982 (Convenzione UNCLOS), la quale dispone che «ogni Stato deve esigere che il comandante di una nave che batte la sua bandiera, nella misura in cui gli sia possibile adempiere senza mettere a repentaglio la nave, l'equipaggio o i passeggeri: a) presti soccorso a chiunque sia trovato in mare in pericolo di vita; b) proceda quanto più velocemente è possibile al soccorso delle persone in pericolo, se viene a conoscenza del loro bisogno di assistenza, nella misura in cui ci si può ragionevolmente aspettare da lui tale iniziativa”; quindi, la Convenzione Internazionale per la Sicurezza della Vita in Mare del 1974 (Convenzione SOLAS) la quale, dal canto suo, obbliga il “comandante di una nave che si trovi nella posizione di essere in grado di prestare assistenza, avendo ricevuto informazione da qualsiasi fonte circa la presenza di persone in pericolo in mare, a procedere con tutta rapidità alla loro assistenza, se possibile informando gli interessati o il servizio di ricerca e soccorso del fatto che la nave sta effettuando tale operazione».

Sul piano normativo “nulla quaestio” dunque. Le criticità, infatti, sembrerebbero generalmente insorgere quando dal piano ideale si renda necessario calarsi su quello esistenziale. Le circostanze che possono presentarsi all’attenzione di quanti si trovino a dover provvedere sono molteplici, e non sempre di agevole soluzione. Anche quando l’operazione di soccorso sia stata portata a favorevole conclusione, non è stata infrequente la insorgenza immediatamente successiva di difficoltà di vario genere allorquando si sia trattato di ottenere il “nulla osta” (si consenta l’espressione) di uno Stato allo sbarco dei migranti e dei rifugiati, soprattutto quando questi (ossia nella quasi generalità dei casi) non disponessero di una documentazione dettagliata idonea ad attestare la loro identità, e quindi ad individuarli non solo nella loro fisicità, ma anche sul piano della corrispondenza alla realtà di quanto risultante sul piano documentale. Il problema esiste, in tutta la sua complessità pratica, e la sua gestione difficilmente sembra essersi posta in maniera lineare.

Su un punto occorrerebbe intendersi: all’onere di un qualsivoglia comandante della nave di fornire immediata assistenza dovrebbe corrispondere un analogo dovere degli Stati tutti di prestarsi reciproca collaborazione quando si tratti di intervenire per prestare l’opportuno e doveroso soccorso, assumendosi in toto la responsabilità di prendersi cura dei sopravvissuti e, contemporaneamente, di permettere a quanti vengono soccorsi in mare di essere prontamente condotti in un luogo sicuro.

Il dovere di attivarsi per salvare vite in mare dovrebbe concretamente avere carattere generale ed estendersi a quanti, indistintamente, si trovino nella condizione di potere e dovere intervenire.

Probabilmente, a livello europeo, la soluzione potrebbe essere quella di stabilire regole comuni di condotta che siano idonee non solo a garantire l’efficientamento del dovere di soccorso ma anche la gestione concordata degli oneri di ri-distribuzione dei migranti in tutto il territorio europeo al fine di consentirne una accoglienza che possa dirsi realmente tale per essere utile ad assicurare a tutti condizioni di vita e di lavoro apprezzabili.

Quale momento migliore di quello attuale per realizzare un piano di salvataggio ed accoglienza originale e funzionale targato UE?

Il governo Meloni, riunitosi nei giorni scorsi a Cutro per approvare un decreto che vorrebbe conseguire l’intento di porre un argine all’attività degli scafisti, quale obiettivo vorrebbe conseguire? Davvero si può ragionevolmente ritenere che con l’inasprimento della repressione per reati già previsti dal testo unico sull’immigrazione si possa risolvere il “problema?

La soluzione, invero, parrebbe non essere tale siccome potrebbe apparire piuttosto complesso conseguire la punizione di reati commessi fuori dal territorio nazionale. Siamo sicuri che introdurre nuove misure penali, nuove tipologie di reati per intenderci, sia la risposta corretta per la gestione del fenomeno? Non sarebbe maggiormente utile predisporre piani migratori che per la loro impellenza pratica dovrebbero imporsi quali parti integranti del dovere di soccorso e di accoglienza?

Occorre entrare nell’ottica che le migrazioni fanno parte dei percorsi umani, pensare di poterle fermare potrebbe essere attività illusoria. Bisognerebbe iniziare a ragionare diversamente: le migrazioni potrebbero e dovrebbero essere vissute con serenità siccome rappresentano un autentico arricchimento valoriale.

Giuseppina Di Salvatore – avvocato, Nuoro

© Riproduzione riservata