L’intervista

Valentino Mannias «Ma il vero “Mostro” è ancora il patriarcato» 

Nei panni dannati di Salvatore Vinci, domani sarà l’ospite di “Unione Cult” su Radiolina 

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Cosa significa interpretare il volto del male? Ed essere l’attore protagonista della serie tv più vista al mondo? Valentino Mannias, classe 1991, radici a Serramanna, nome noto della scena teatrale (già Premio Ubu), entra negli studi di Radiolina (domani alle 14.30 si racconterà durante il programma “Unione Cult” e su Unione Tv alle 18.30 e sul relativo podcast) e lascia con il fiato sospeso e un senso di inquietudine chiunque lo incontri. Per tutti ormai, a primo impatto, è Salvatore Vinci che nella prima stagione de “Il Mostro”, regia di Stefano Sollima per Netflix, rappresenta la quinta essenza della crudeltà.

Superato il senso di straniamento, due battute in sardo e il ricordo di quel suo esordio al Bastione di Cagliari, aveva 16 anni e partecipò come autore a una raccolta di racconti studenteschi, eccolo pronto a raccontarsi ora che il successo lo ha portato alla notorietà internazionale.

Mannias, come si è preparato a interpretare Salvatore Vinci?

«Ho studiato diversi libri che parlavano della storia del Mostro di Firenze, documentari, podcast, con un’attenzione particolare alla pista sarda. Ho cercato di ricostruire la migrazione dei sardi in Toscana dagli anni ’60 in poi, anche attraverso i racconti delle persone che l’hanno vissuta. Poi ho ricreato a casa mia tutte le scene del crimine, con le dimensioni dell’auto, i volti delle vittime, seguendo passo passo le ricostruzioni della scientifica, con grande gioia della mia fidanzata. La prima cosa fondamentale però è stata non pensare di dover interpretare un Mostro . Le cose più orribili, come la violenza, che ci piaccia o no, le abbiamo dentro, e penso che un attore debba indagarle dentro di sé per mostrarle agli altri, sospendendo qualsiasi giudizio di innocenza o colpevolezza sul proprio personaggio. Poi ho imparato a suonare l’armonica, che dava un tocco di leggerezza a tutto il percorso, un respiro necessario».

Quanto conosceva della pista sarda prima di girare la serie?

«Prima di iniziare questo viaggio conoscevo molto poco della pista sarda. Ero come tutti incagliato nel “se ni’ mondo esistesse un po’ di bene” di Pacciani, che in realtà è solo una parte della storia che ha preso il sopravvento in televisione e quindi nell’immaginario comune. Probabilmente preferiamo l’immagine di un Mostro buffo da deridere, che non ci faccia paura, che dia spettacolo, per permetterci di non vedere la mostruosità in noi stessi».

Quanto è stato duro interpretare la faccia del male?

«Quando Sollima mi ha affidato questo ruolo ho da subito sentito una grande responsabilità, oltre al fatto che si trattasse di una storia vera. Credo sia importante non stereotipare il male e restituirlo nella banalità che gli è propria e che può renderlo ancora più inquietante. Potrei dire che interpretare il male è stato “duro”, per risultare vagamente buono e rassicurante al mio interlocutore, ma la verità è che interpretare il male è affascinante. Fin dai primi studi di teatro pensavo che i personaggi “cattivi” fossero più intriganti di quelli “buoni”, perché meglio parlano delle nostre miserie se sono scritti con raffinatezza nei meandri delle loro trame. È la differenza tra interpretare Jago e Otello».

Le indagini sul Mostro di Firenze non hanno ancora trovato completezza, che idea si è fatto?

«Credo di aver capito chi è Il Mostro di Firenze, è molto anziano, si sa mescolare in tutte le situazioni, con persone di ogni età o ceto sociale, in Italia e nel mondo: il suo nome? Patriarcato. Il punto in tutta questa storia non è relegarla solo alla ricerca di un colpevole che le famiglie delle vittime meriterebbero di trovare, seppur dopo tutto questo tempo, mettendo la parola giustizia a conclusione di questa terribile vicenda. Ogni relazione tra i personaggi di questa realtà, parla di una società che costruisce l’immagine di un uomo che dispone della vita delle donne con la forza, fisica e psicologica, in maniera spesso sottile, sotto la veste di un complimento, volendo trovare poi un capro espiatorio in un Mostro che ripulisca tutto».

Personaggi sardi, un cast sardo: una scelta importante. Come la valuta e quale è stato il clima sul set?

«Ho apprezzato molto la scelta di Sollima di prendere attori sardi per raccontare questa storia, trovandola rispettosa, intelligente, umile. Poter disporre ad esempio di un madre lingua per la realizzazione di alcune scene è stato sicuramente un valore aggiunto per la fedeltà ad un racconto e la comprensione del mondo che esso rappresenta. Mi è capitato di tradurre delle scene in sardo e occuparmi di coordinare le attrici e gli attori al fine di ottenere il più possibile un accento credibile. Quattrocento persone ferme sul set aspettavano che mia madre uscisse dal coro della chiesa perché a me serviva un chiarimento sulla scelta di una parola. Tutto questo ha creato un’atmosfera magica su un set diretto magistralmente da Sollima, che rideva incantato mentre mi sentiva parlare con mia madre in sardo al telefono. Lei ovviamente ci ha fatto perdere un sacco di tempo per assicurarsi che avessi mangiato e fossi ben coperto dal freddo».

E ora?

«Dopo tanto teatro mi piacerebbe affacciarmi più assiduamente nel mondo del cinema. Ho qualche idea che mi ossessiona e il mio nuovo spettacolo “Hamlet in purple” in tour in tutta l’isola nei prossimi mesi prima di sbarcare in continente. Stare con la mia famiglia e con chi mi vuole bene però ultimamente è una delle cose a cui do più valore».

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