Il concerto.

Raphael Gualazzi,  «La miglior vita? d’estate in Sardegna» 

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Dall’estate di John Wayne all’inverno di Raphael: dicembre che si conclude con un altro artista attesissimo, Raphael Gualazzi al Teatro Massimo di Cagliari (ingresso da via De Magistris), alle 20.30, con l’organizzazione del Cedac.

Gualazzi , come sta oggi l’uomo e l’artista?
«Sto veramente bene. Se abitassi in Sardegna amerei l’estate, è uno dei posti migliori dove essere. Qui in continente vivo a Pesaro e apprezzo l’inverno. Sono nato l’undici novembre, sono Scorpione. Reduce da tanti live, però poi ci sono anche i giorni di stacco, tra camino e pianoforte. Il mio approccio è lavorare su me stesso, come persona e nel lavoro, e dare tutto quello che posso rispetto a ciò che so fare. Se ognuno fa il meglio, si crea energia positiva».

Sanremo 2011 ed Eurovision: cosa hanno rappresentato quei palcoscenici?
«All’epoca ho avuto una grande opportunità. Portai una canzone piena di swing, che mi rappresentava e teneva insieme l’identità italiana con la cultura afroamericana. C’ero io, con il mio percorso. Sono grato di averlo potuto portare in un contesto mainstream. Sono contento quando viene valorizzata la bellezza musicale».

Una band l’accompagna da oltre dieci anni. Come nasce un legame così solido?
«L’amore per la musica. Poi c’è il senso di condividere un linguaggio dove le parole non arrivano. Si entra in uno strato più intimo. Ci sono fiducia e rispetto. Poi curiosità, voglia di migliorare, remare nella stessa direzione».

Nel suo lavoro compone, arrangia e dirige. Qual è, dunque, la fase più complessa?
«Fatico di più quando devo fermare la musica. È mutevole. Anche con gli stessi musicisti, lo stesso studio e lo stesso ingegnere non restituisce mai lo stesso risultato. Un brano ha centomila forme diverse».

Come si arriva al pubblico mantenendo una cifra stilistica forte in un mondo pieno di rumore?
«Non ho pozioni. Ho imparato a privilegiare l’autenticità, ad andare avanti nelle direzioni scomode e pericolose. Se non si rischia, non si ottiene. Significa ascoltare altri punti di vista, mettersi in discussione. Alla fine tu decidi: sei tu l’artista e l’opera, con i tuoi valori».

Il repertorio attraversa soul, jazz, pop e swing. Come costruisci una scaletta?
«Spesso cerchiamo qualcosa di nuovo davanti a noi, dimenticando che il futuro è anche dietro. Tanta musica viene dimenticata ed è un patrimonio incredibile di ispirazioni melodiche, armoniche ed espressive. Tutto può essere reinterpretato. Ci divertiamo anche a rileggere Verdi: nell’ultima aria del Falstaff c’è sarcasmo, autoironia, uno sguardo lucidissimo sulla condizione umana. Chi non sa ridere perde qualcosa di essenziale».

Da dove nasce una melodia?
«Da un suono, da un’onomatopea. Un fischio di un treno in stazione a Milano, un sound check che ispira un suono modale che il batterista aggancia, ma anche la spia della mia C3. Siamo fatti di arte: è il modo in cui testimoniamo la nostra esistenza, se solo ci fermiamo ad ascoltarci».

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