Nei giorni scorsi l'Eurostat ha certificato che il debito pubblico italiano l'anno scorso ha sfondato le previsioni del governo, collocandosi al 132,2% del Pil. Ciò è dovuto al fatto che il deficit strutturale, stimato al netto delle misure passeggere, a causa dell'aumento dello spread e quindi dei rendimenti dei titoli pubblici, è leggermente aumentato, contro le previsioni del governo, dello 0,3%. Questo fatto avrà conseguenze sulle prime raccomandazioni che la Commissione Ue rivolgerà all'Italia il prossimo 7 maggio quando, secondo le anticipazioni del commissario agli Affari economici, Pierre Moscovici, i conti italiani «dovranno tornare sulla base delle nostre indicazioni».

Nel successivo mese di giugno, inoltre, la Commissione farà un riesame complessivo della situazione italiana, basato sul fatto che gli impegni presi dal nostro governo sui saldi del 2018 non sono stati mantenuti. Perciò, l'Italia torna ad essere guardata con sospetto nel mercato finanziario globale, dando per scontato che si andrà a una nuova resa dei conti con la Commissione Ue dopo le elezioni europee del 26 maggio.

Il governo italiano non s'illuda che la nuova Commissione che scaturirà dalle elezioni europee avrà un atteggiamento più benevolo nei confronti dell'Italia, anzi paradossalmente le difficoltà aumenterebbero se a vincerle fossero i partiti sovranisti europei. Il problema è che in proiezione, come ha recentemente sostenuto anche la European House-Ambrosetti in una recente conferenza tenutasi a Cernobbio, il rapporto debito pubblico/Pil non è sostenibileI nfatti la condizione di sostenibilità di medio-lungo periodo è che il tasso di crescita dell'economia sia superiore o almeno uguale al tasso di rendimento dei titoli a lunga scadenza. E in Italia, a fronte di un tasso di crescita dello zero virgola, il tasso di rendimento dei Btp a dieci anni si attesta al 2,63%.

Il Rapporto Ambrosetti individua tre cause della debole crescita dell'Italia: la prima è la bassa produttività del lavoro. Negli ultimi 23 anni, infatti, a fronte di un aumento della produttività italiana del 6,7%, si è avuta una crescita media europea del 27,4%, del 31,6% in Germania, del 27,8% in Francia e del 16,8% in Spagna. Il motivo del ritardo italiano è dovuto alla scarsa produttività "multifattoriale", legata alla managerialità, alla digitalizzazione, alla meritocrazia, alla formazione e all'ambiente economico.

La seconda causa è data dal livello del capitale umano. Tra i Paesi Ocse, il nostro ha la più bassa percentuale di laureati (solo il 17,7% della popolazione) e investe di meno nell'istruzione superiore (0,3% del Pil), contro lo 0,6% della Francia e della Spagna e dello 0,8% della Germania. Infine, la terza causa della bassa crescita italiana è dovuta alla scarsità degli investimenti e alla lentezza con cui essi vengono realizzati nel tempo.

A queste cause strutturali, se ne è aggiunta di recente un'altra di natura congiunturale. Da un anno, infatti, l'Italia si trova a fronteggiare il raddoppio dello spread tra Btp decennali e i corrispondenti Bund tedeschi, passato da circa 130 punti base nel maggio 2018 ai livelli di oltre 260 dell'ultimo periodo. L'aumento ha già causato una maggiore spesa per interessi sul debito pubblico di circa un miliardo e mezzo quest'anno, il doppio nel 2020 e si prevede di 4,5 miliardi nel 2021. Inoltre, gli effetti negativi non si limitano al costo del debito pubblico, ma si estendono alle banche, alle imprese e alle famiglie. Queste ultime, stima lo studio Ambrosetti, hanno visto calare il valore della loro ricchezza in titoli di 85 miliardi già nel primo semestre del 2018. Sulle banche, la perdita di valore patrimoniale del portafoglio titoli può essere stimata intorno ai 40 miliardi, con effetti negativi sia sui coefficienti patrimoniali che sul costo della raccolta, il che limita la loro capacità di erogare credito.

Un discorso analogo, infine, vale anche per le imprese: il rendimento medio delle obbligazioni emesse dalle aziende italiane a partire dal terzo trimestre del 2018 si è attestato al 3,5%, il doppio rispetto all'1,8% del primo trimestre.

Beniamino Moro

(Docente di Economia politica - Università di Cagliari)
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