«Ho paura di finire come Gisella. Anche io come lei sono cascata fra gente che mi tiene saldamente in pugno. Ho la possibilità di inchiodare tanta gente e perfino due degli assassini di Gisella. Sono disposta a confessare e a denunciare se anche altre ragazze faranno lo stesso». Si chiudeva con l’appello “Fate presto” la lettera che una giovane scrisse a L’Unione Sarda nei giorni in cui Carbonia fu travolta dalla notizia dell’efferato omicidio di Gisella Orrù. Era il 7 luglio del 1989 e il ritrovamento del cadavere di una donna aveva posto fine alle ricerche della giovane studentessa che, nove giorni prima, non era tornata a casa dalla nonna. Per quella morte, preceduta da violenze sessuali e da una terribile esecuzione, due persone sono state condannate a trent’anni di carcere ma a tanti quella condanna non è bastata e ancora oggi si chiede di far luce su “l’altra verità” mai emersa.

I dubbi

Licurgo Floris, assolto in primo grado e condannato in appello e in Cassazione, si è ucciso in carcere gridando fino all’ultimo la sua innocenza. L’altro condannato, Tore Pirosu, (lo “zio Tore” amico della famiglia di Gisella che ebbe uno sconto di pena per aver collaborato alle indagini) è scomparso nel nulla dopo l’uscita di prigione per indulto. Fuggito o ucciso e fatto sparire? Nessuno lo sa. In tutti questi anni – ne sono trascorsi già 35 da quel maledetto 7 luglio – in pochi hanno creduto che la storia sia finita con Floris e Pirosu: «Troppe verità tenute nascoste, troppi i silenzi. – dice Clorinda Orrù, sorella del padre di Gisella – Parlare di lei, anche dopo trentacinque anni, provoca un dolore immenso, ma se può servire a far emergere la verità sulla sua morte allora è giusto che se ne parli. Perché quanto accadde in quei giorni non è mai stato rivelato davvero e il nostro appello, oggi come allora, non è cambiato: chi sa parli». A far diventare di nuovo attuale questa storia che nessuno ha mai dimenticato è il libro “La donna nel pozzo” dello scrittore cagliaritano Pierluigi Pulixi, da qualche giorno in libreria. Pulixi si è ispirato al caso di Gisella per raccontare una storia che, nella fantasia dello scrittore, giunge a un finale decisamente diverso: «Non ho documenti nuovi o confessioni inedite – ha premesso Pulixi nei giorni scorsi – ma credo che la famiglia di Gisella e la città intera meritino di sapere come sono andate le cose».

La vedova

Una convinzione che certo trova favorevole Luciana Cogoni, la vedova di Licurgo Floris che da decenni chiede che il caso venga riaperto: «Ho l’amara certezza che questo appello non verrà ascoltato fino a quando chi sa la verità non supererà la paura – afferma la donna – ma trovo assurdo che dopo tanti anni ci sia chi riesce a convivere con questo terribile segreto e sa che gli assassini di Gisella e i mandanti sono ancora in circolazione. Eppure ci sarebbero tanti modi per far arrivare in sicurezza la verità a chi deve indagare». La paura è tanta perché rivelare i retroscena di quel mercato del sesso a pagamento in cui all’epoca finirono svariate ragazzine in cambio di pochi spiccioli e in cui suo malgrado incappò Gisella, significherebbe accendere una luce su una certa “Carbonia bene” che si dice sia sempre stata tenuta al riparo dalle indagini.

I misteri

«Credo che in città ci sia ancora chi non dorme la notte per il rimorso e per il ricordo della serata in cui fu uccisa Gisella – dice Sandro Mantega, cronista che all’epoca seguì il caso per L’Unione Sarda – ma credo che nessuno troverà il coraggio di esporsi per far luce su una verità che le indagini ufficiali hanno rivelato solo in parte. Credo che all’epoca si sia scavato in un’unica direzione e questo ha tenuto troppi punti oscuri».

La paura ha tenuto le bocche cucite, soprattutto quelle delle ragazze che forse erano presenti all’ultimo festino o ai precedenti, sconvolte dai dettagli della macabra esecuzione di Gisella. L’omicidio di una donna a Villaperuccio, il suicidio di una studentessa di Perdaxius un mese prima dell’omicidio di Gisella e il tentato suicidio di un’altra ragazzina, mostrano chiaramente il clima di allora: «Un clima di paura folle – conferma Vincenzo Panio, all’epoca comandante dei vigili urbani che prese attivamente parte alle indagini – e come dare torto a queste ragazze? Furono tante le domande rimaste senza risposta, i misteri come quello della sparizione delle registrazioni con le voci di chi segnalò preziose informazioni sulle indagini alla polizia municipale e ai carabinieri. La lista delle incongruenze è lunga, ma dubito che chi è in possesso della verità dopo 35 anni abbia la voglia e il coraggio di parlare. Troppe persone sono ancora presenti in città e altre non ci sono più e chiamarle in causa oggi avrebbe poco senso perché non ci sarebbe il supporto di prove concrete».

Città ferita

Dunque non resta che rassegnarsi a tenere aperta questa ferita? «Una ferita dolorosissima – dice Antonangelo Casula, ex sindaco della città mineraria – all’epoca dell’omicidio di Gisella Orrù il mio mandato era già finito, ma ho un ricordo nitidissimo del clima che si respirava. Uno per tutti valga l’esempio della “passeggiata”, via Manno, dove prima dell’omicidio migliaia di giovani, di Carbonia e non solo, si davano appuntamento ogni sera. Dopo quei fatti tragici la passeggiata si svuotò, i ragazzi si trasferirono in via Gramsci, tanti genitori imposero comprensibili rigidi coprifuoco alle figlie adolescenti». Un clima pesantissimo come conferma Francesca Marongiu amica della famiglia Orrù: «Tutte noi ragazzine rimanemmo sconvolte – ricorda – io ero molto piccola ma ricordo bene sia Gisella sia la sua sorella minore Tiziana perché frequentavamo lo stesso oratorio. Nessuno di noi ha mai creduto che Gisella facesse parte di quel giro terribile, e del resto non è mai stato dimostrato. I genitori di tutte noi erano molto spaventati, anche fare una passeggiata con un’amica magari sino al cinema, da sole, veniva considerato un rischio. Cambiò la nostra vita, fu terribile, tutti meritiamo di sapere la verità. Chi sa deve trovare il modo di parlare».

Stefania Piredda

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