Mercoledì 20 gennaio 2021, tra comprensibili tensioni e timori, si terrà a Washington D.C., Capitale degli Stati Uniti d’America, la cerimonia cosiddetta di “Inauguration” per l’insediamento di Joe Biden alla Casa Bianca: la cinquantanovesima, per la precisione.

L’assalto “vandalico” e in qualche modo “militaresco” compiuto in sfregio al Congresso, nonostante la ferocia inaudita che lo ha vergognosamente caratterizzato e i troppi morti riversi sul campo, si è risolto, ed altrimenti non avrebbe potuto essere, in un misero fallimento, tanto per il suo autore morale, quanto per i suoi esecutori materiali. Ma seppure non sia riuscito nel suo intento, siccome volto evidentemente a ribaltare il risultato delle elezioni, tuttavia, quell’assalto armato, ha indubbiamente lasciato dietro di sé il rigurgito di un “trumpismo narcisista” ancora presente, e in qualche misura ancora subdolamente latente, che si annida e si moltiplica sia nella società civile sia, purtroppo, nelle Istituzioni.

La sconfitta di Trump è stata certamente, come nei fatti è, una liberazione, ma non può dirsi ancora sufficiente ad innescare quel fondamentale “cambiamento”, quella “inversione di tendenza” rispetto ad una concezione estremistico-sovranista di cui non solo gli Stati Uniti, ma anche i restanti Paesi del Mondo intero hanno disperatamente bisogno per poter ricominciare a percorrere le vie dell’unione sociale, di quella umana nonché di quella economica in dispregio di ogni ulteriore, e quanto mai sprecata, scorciatoia divisionista. E non si tratta di obiettivo semplice da perseguire, soprattutto laddove ci si soffermi per un attimo a considerare che l’elezione del Tycoon, nell’oramai lontano 2016, è stata pur sempre la espressione vivida, sia pure forse distorta nelle motivazioni intrinseche che la hanno determinata, di un voto popolare che altro non ha fatto se non trasmettere le ansiose ed ansiogene prospettive populiste di una pseudo – democrazia illiberale in seno ad un governo federale inconsapevole nell’immediatezza dell’evento scatenante.

Tanto più quando, di conseguenza, si comprenda che anche la recentissima competizione elettorale tra il Repubblicano Donald Trump ed il Democratico Joe Biden non ha rappresentato solamente lo scontro poco più che figurato tra due differenti concezioni di America, ma ha addirittura stigmatizzato, creando una netta frattura di demarcazione, la differenza abissale tra due antitetiche categorie costituzionali, ossia tra la democrazia liberal-costituzionalistica propriamente detta da un lato, e la democrazia illiberale dall’altro, evidentemente incompatibile con la prima ma pronta a modellarsi sulla stessa per fagocitarla e sopraffarla radicalizzando, di riflesso, i popoli, e/o comunque i potenziali elettori interessati, su posizioni estremistiche pericolose e degradanti sul piano morale e su quello più genericamente esistenziale.

Ma, al di là di queste riflessioni, che possono pure lasciare il tempo che trovano: quale può mai essere, oggi, la risposta convincente all’ideologia del “trumpismo narcista” che sembra aver invaso buona parte della società civile avvelenandola a colpi e contraccolpi di contraddizioni e di contrapposizioni? La conclusione è che innanzitutto sia necessario invertire il paradigma comunicativo che ha consentito una abominevole estensione di tutto quello che, troppo spesso incautamente, viene concepito come “politicamente corretto” al di là ed a prescindere da ogni considerazione di opportuna correttezza espressiva. Perché il vero segreto del successo o dell’insuccesso risiede nella sapiente esplicazione delle dinamiche del contraddittorio il quale, a sua volta, riesce ad essere maggiormente incisivo e radicalizzante quanto più lo si conduca e lo si traduca, financo sul piano politico, nelle forme della moderazione dialogica. Intanto, perché, nel caso che ci occupa, il continuare a tollerare l’ideologia linguistica, e non solo, del “trumpismo narcisista” spalancherebbe le porte alle barbarie degenerative delle comunità che ancora ne risultassero impregnate impedendo di fatto alla società democratica di svilupparsi liberamente ed in autonomia per neutralizzare qualsiasi tendenza degradante al suo interno.

Quindi, perché quanto accaduto il 6 gennaio scorso a Capitol Hill è stato solo l’espressione sorda e violenta di una delle possibili deviazioni traballanti della democrazia e delle dinamiche politiche democratiche divenute incapaci di ricorrere a confronti misurati pure nelle rivendicazioni di massa. Infine, perché se è vero, come è vero, che Donald Trump è stato reso quasi inoffensivo, tuttavia è altrettanto vero che il “trumpismo”, come da più parti osservato, con o senza di lui, ed anche con differenti declinazioni ideologiche ed espressive, continuerà a sopravvivere.

Per questo motivo ritengo, pertanto, che quello attuale, sia il momento giusto per portare avanti un processo di affermazione di quel fondamentale principio di “realismo politico” democratico il cui fine primario sul piano dell’azione politica, al di là delle varie personalità in campo, dovrà necessariamente essere il raggiungimento e la stabilizzazione del potere diretto a ricondurre ad unità una società profondamente divisa. In America, ma anche nel Continente Europeo, come pure nella nostra Italia, è arrivato il momento della Realpolitik e le classi politiche non possono continuare ad ignorarla.

Giuseppina Di Salvatore

(Avvocato - Nuoro)
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