Sullo sfondo della guerra delle statue, il ritorno della (periodica) demolizione dei monumenti simbolo del colonialismo e della segregazione razziale, negli Stati Uniti c'è una storia poco conosciuta che racconta della resistenza culturale dei nativi americani definitivamente depredati, ormai un secolo e mezzo fa, della loro terra e della libertà.

South Dakota, confine con il Wyoming. Svettano qui le Black Hills, le Colline Nere, piccola catena montuosa che precede le Montagne Rocciose. Guglie di granito ricoperte di conifere scure che per i Lakota (con i Nakota e i Dakota una delle tre grandi Nazioni del popolo Sioux) erano e ancora sono un luogo sacro, la casa del Grande Spirito. In questa terra settant'anni fa si è cominciato a lavorare su quella che dovrà essere la più grande scultura del mondo: il Crazy Horse Memorial, monumento dedicato a Cavallo Pazzo, leggendario capo guerriero degli Oglala, una delle sette tribù dei Lakota Sioux, che il 25 giugno del 1876 sconfisse il 7° Cavalleggeri del generale George Custer nell'epica battaglia di Little Bighorn. Una vittoria, suggellata dall'uccisione di 264 soldati blu e dell'eroe della guerra civile, che nella memoria del popolo indiano viene però ricordata come il preludio alla sconfitta finale. Il massacro delle truppe di Custer è stato infatti, per il governo degli Stati Uniti, l'occasione da cogliere al volo per giustificare il più grande furto ai danni dei nativi americani. Un furto perpetrato - addirittura con una legge del Congresso - quando si scoprì che la montagna sacra degli indiani era piena d'oro. I visi pallidi e il "Grande padre" di Washington (così i Sioux hanno sempre chiamato il presidente degli Stati Uniti) volevano la terra dei Lakota, la terra con i monti e tutto il metallo prezioso che c'era dentro, e alla fine se la presero. Mentre oggi, dunque, in tutto il Paese sta crescendo il movimento che chiede la rimozione delle statue dedicate a personaggi storici simbolo dello sterminio dei nativi e del suprematismo bianco, nelle Black Hills del South Dakota prende forma il monumento a Cavallo Pazzo. Commissionato ottant'anni fa dal capo della tribù Lakota Henry Orso in Piedi, rappresenta la sfida dei nativi americani a quella che hanno sempre considerato come una provocazione, un ennesimo schiaffo in faccia: i giganteschi ritratti dei presidenti americani George Washington, Thomas Jefferson, Abraham Lincoln e Theodore Roosevelt scolpiti nella roccia di Mount Rushmore, uno dei picchi della montagna sacra degli indiani. "Vogliamo un monumento che sovrasti quello dei Grandi padri di Washington", disse Orso in Piedi a Korczak Ziolkowski, scultore che aveva lavorato nel cantiere di Mount Rushmore. Era il volere dei discendenti del grande guerriero Sioux, confinati nella riserva di Pine Ridge. Così, alla fine degli anni Quaranta, nel paradiso di Thunderhead Mountain - a breve distanza dal monumento dei quattro presidenti - i lavori cominciarono ufficialmente con la prima carica di dinamite. Ziolkowski forgiò il volto di Cavallo Pazzo (per disegnare le labbra ci vollero due anni) fino alla sua morte, nel 1982, ma il lavoro non si è fermato e ancora continua. Lo scultore ha sempre lavorato gratuitamente e definì la pratica come un progetto no-profit sul quale si sono poi impegnati la moglie Ruth (che istituì la Fondazione del Crazy Horse Memorial) e, dopo la morte di lei nel 2014, i figli. Oggi frotte di turisti pagano il biglietto per poter entrare nel cantiere e ammirare da vicino quel che è già possibile vedere del monumento, ovvero il viso del grande capo dei Lakota. Non si sa quando l'opera sarà finita ma è certo che, come voleva Orso in Piedi, oscurerà in magnificenza le sculture dei padri degli Stati Uniti sul Monte Rushmore. Se teste dei presidenti, infatti, sono alte 18 metri, il monumento a Cavallo Pazzo - guerriero a cavallo - sarà ancora più gigantesco: 172 metri in altezza e 195 in larghezza. Un puntiglio, un moto d'orgoglio che vale comunque come una magra consolazione. I visi pallidi volevano questa terra e se la sono presa con una legge, approvata dal Congresso il 7 agosto 1876, un mese e mezzo dopo l'uccisione di Custer e dei suoi soldati. Una legge che in pratica era stata un ricatto: i Sioux delle riserve non avrebbero più ricevuto derrate alimentari, medicine, coperte e assistenza fino a quando anche i loro fratelli Lakota - gli irriducibili - non avessero firmato la cessione delle Colline Nere e accettato di vivere sotto la giurisdizione di Washington. In appena un quarto di secolo, erano così divenuti carta straccia i due trattati di Fort Laramie - il primo, del 1851, che riconosceva agli indiani la sovranità sulle loro grandi praterie più 50mila dollari l'anno in cambio della garanzia del libero passaggio dei pionieri lungo la strada dell'Oregon; e il secondo, del 1868, che aveva dichiarato intoccabili le Colline Nere. In mezzo c'era stato il crack economico del 1873, il tracollo delle banche e della Borsa della costa atlantica, e la conseguente corsa all'oro di una moltitudine di disperati mentre la Casa Bianca affidò all'esercito l'incarico di conquistare definitivamente quel forziere naturale. A capo della spedizione, nell'estate del 1874, il generale (in realtà era colonnello) George Armstrong Custer che si era portato dietro persino una banda musicale e l'inviato speciale del New York Tribune. "Gold", era il titolo a caratteri cubitali comparso sul giornale dopo il primo dispaccio telegrafico mandato dal cronista. "Trovato oro in abbondanza sulle Colline Nere". La casa del Grande Spirito era stata violata.

Il monumento ai 4 presidenti (foto Serusi)
Il monumento ai 4 presidenti (foto Serusi)
Il monumento ai 4 presidenti (foto Serusi)
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