Si dovrà riflettere, prima o poi, su quel che è successo. Sul perché durante i mesi della chiusura generale - la quotidianità improvvisamente distopica, seppur necessaria, dell'Io resto a casa - sia pian piano emersa un'agguerrita umanità di delatori e di sceriffi senza stella d'argento votati a smascherare e denunciare "gli untori".

Così, messi da parte i cinesi in prima battuta identificati come unici diffusori del virus, il ruolo di attentatore della salute pubblica è toccato ai runner che si allenavano senza alcuno intorno nelle stradine di campagna, al pensionato reo di uscire due volte al giorno per comprare qualcosa al supermercato e scambiare almeno un saluto con qualcuno, al papà che portava il bambino nervoso giù in strada per fare il giro di fretta attorno al palazzo. I vigili urbani di ogni città, e i carabinieri e i sindaci hanno ricevuto segnalazioni d'ogni sorta: "Correte, quello lì mette a repentaglio la salute di noi tutti". Quello lì diffonde il contagio. Quello lì è l'untore. Perché è successo lo si dovrà prima o poi spiegare, anche se il meccanismo che regge la dinamica della ricerca di un capro espiatorio non è così diversa dalla caccia alle streghe descritta da Alessandro Manzoni ne I promessi sposi. Untore è un termine nato nel Seicento, al tempo della peste di Milano che fa da sfondo storico al romanzo che è tra i più belli e densi della letteratura italiana. Gli untori che nella credenza popolare "andavano imbrattando muraglie, porte d'edifizi pubblici, usci di case, martelli", con un unguento che "si diceva composto, quel veleno, di rospi, di serpenti, di bava e di materia d'appestati". Con una tal persuasione, scrive Manzoni, "che ci fossero untori, se ne doveva scoprire, quasi infallibilmente: tutti gli occhi stavano all'erta; ogni atto poteva dar gelosia. E la gelosia diveniva facilmente certezza, la certezza furore".

Un furore che ha generato pestaggi d'innocenti e soprattutto errori giudiziari come quelli raccontati da Manzoni in Storia della Colonna Infame. Di che storia si tratta? Dobbiamo tornare indietro di quattro secoli, al giugno del 1630, quando a Milano l'epidemia di peste uccideva centinaia di persone al giorno e le strade venivano percorse senza sosta dai carri colmi di cadaveri. Il primo caso di contagio era stato registrato nell'ottobre dell'anno prima: un uomo era rientrato in città da Chiavenna con un carico di abiti usati ch'erano appartenuti a certi fanti alemanni. Morì due giorni dopo, con le pustole del male nero sul corpo. I suoi familiari furono trasferiti al lazzaretto per la quarantena e il suo mobilio fu bruciato. Ma a parte "le bollette personali di sanità" - il patentino medico che ogni forestiero che voleva entrare in città doveva esibire per dimostrare la provenienza da territori non infetti -, le autorità altro non fecero per fermare l'epidemia che segnò un'impennata dopo i festeggiamenti del Carnevale e della nascita dell'infante di Spagna, la potenza che governava il ducato di Milano. Pian piano un'altra peste cominciò a diffondersi di bocca in bocca, una voce che raccontava di strani personaggi che andavano lungo le vie più frequentate ungendo con un intruglio velenoso muri, portoni e finestre. Dicerie che alimentavano sempre più il sospetto e l'isteria generale, tanto che il governatore accusò apertamente le potenze straniere nemiche della Spagna, ritenute colpevoli di pagare gli untori per diffondere la peste a Milano. Fu in questo clima che una mattina di pioggia del 21 giugno 1630 nella zona di Porta Ticinese arrivò il capitano di giustizia Gianbattista Visconti chiamato da un sagrestano che aveva notato muri e portoni imbrattati. Di lì a poco venne fuori una testimone oculare: Caterina Trocazzani, vedova Rosa, disse che alle otto di quel giorno, mentre guardava dalla finestra, aveva visto un uomo con una mantella nera e un grande cappello che camminava rasente ai muri "con una carta piegata in mano che pareva che scrivesse". La donna riferì un altro particolare: mentre si allontanava, l'uomo misterioso salutò un passante che lei, peraltro, conosceva. Fu così che gli inquirenti risalirono al presunto untore. Tempo mezzora e fu arrestato Guglielmo Piazza, commissario di sanità. Durante la perquisizione nella sua casa in Porta Ticinese non fu trovato alcunché, ma il capitano di giustizia sapeva che il sospettato non avrebbe resistito alle torture e prima o poi avrebbe confessato. "Stavo facendo solo il mio lavoro", ripeteva Piazza. Quella mattina aveva percorso le vie del quartiere segnando sul foglio di servizio le case abbandonate a causa della peste e appuntando i nomi delle vittime tra i residenti. "Camminavo rasente ai muri solo per ripararmi dalla pioggia, non per nascondermi", cercò di spiegare, inutilmente.

Il 26 giugno, stremato dalle torture, confessò. Raccontò una storia inventata per aver salva la vita, una storia tuttavia credibile. Il giudice gli aveva garantito l'immunità se avesse fatto il nome dei complici e lui, ormai vinto, un nome lo fece. Quando il presidente di sanità, il notaio e i gendarmi piombarono nella bottega del barbiere Gian Giacomo Mora, questi pensò che si trattasse di un'ispezione per via degli unguenti che preparava e vendeva, come quel rimedio contro il contagio a base di olio e di aglio ch'era così tanto richiesto dalla gente e che gli permetteva di arrotondare i magri guadagni della sua attività. Al tempo, va detto, i barbieri avevano una clientela che si rivolgeva a loro anche per interventi curativi. "Sì, è un unguento che preparo io, ma lo faccio per il bene", ammise, non immaginando quale in realtà fosse l'accusa e dunque precipitando sempre più nella spirale degli equivoci. Perciò quando più tardi in carcere gli fu chiesto se conoscesse Guglielmo Piazza e, come aveva testimoniato questi, gli avesse venduto un vasetto di quell'unguento, il barbiere - che ancora non aveva capito il motivo dell'arresto - disse che sì, lo conosceva, e ancora sì, gli aveva venduto la pozione contro il contagio, visto che il commissario di sanità "faceva un mestiere molto pericoloso per la salute". Dopo giorni e giorni di torture, e poi la promessa di aver salva la vita se avesse ammesso la sua colpa, Gian Giacomo Mora finì anch'egli per confessare e raccontare la storia che gli inquisitori volevano sentire. Disse che l'unguento lo preparava lui con "la bava dei morti di peste", materiale che gli veniva fornito da Piazza che, per lavoro, conosceva i monatti e vedeva tanti carri carichi di cadaveri. Altro che avere salva la vita. Quella confessione era il suggello della sua condanna a morte.

La sentenza del Senato milanese, al termine di un processo da caccia alle streghe, imperniato sulla tortura, la superstizione e la corruzione dei giudici, arrivò alla fine di luglio: Piazza e Mora, e altri milanesi accusati di essere untori, furono condannati alla pena capitale, la morte dopo il supplizio della ruota. La casa del barbiere venne rasa al suolo e nello slargo ripulito delle macerie fu eretta la colonna infame che nelle intenzioni delle autorità cittadine doveva servire da monito e ricordare il delitto di cui si erano macchiati i condannati. La colonna fu demolita nel 1778 quando la battaglia di civiltà per l'abolizione della tortura aveva fatto grandi passi avanti e quel monumento era divenuto ormai il simbolo dell'infamia dei giudici. Sull'incredibile storia dell'ufficiale sanitario Guglielmo Piazza e del barbiere Gian Giacomo Mora si erano soffermati Cesare Beccaria con il suo "Dei delitti e delle pene", poi appunto Alessandro Manzoni, e Pietro Verri nel saggio "Osservazioni sulla tortura". Tornando a quel 1630, va detto che il sacrificio dei due innocenti non placò ovviamente la furia del contagio: ogni giorno morivano centinaia di persone, mentre migliaia erano i cadaveri abbandonati nelle vie. Solo a dicembre, con l'arrivo del freddo più rigido, l'epidemia cominciò ad attenuarsi per poi scomparire lasciando i milanesi increduli e guardinghi. Quanto al numero dei morti non v'è certezza, e nemmeno su quello degli abitanti di Milano prima della peste. Gli storici dell'epoca Tadino e Ripamonti contavano rispettivamente 165.000 vittime (su una popolazione di 250.000 abitanti) e 140.000 (su 200.000 abitanti).
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