Il padre non lo ha quasi conosciuto: lo ha abbandonato insieme alla madre e i tre fratelli senza un soldo e la sua infanzia a Gavoi è stata poverissima. A 17 anni, nel 1962, Angelo Licheri decide di seguire a Roma il Luna Park con il quale, giovanissimo, ha collaborato. E si trasferisce nella Capitale. Fa diversi lavori, anche all’estero, ma poi rientra a Roma. Si sposa con una ragazza originaria di Sant’Anna Arresi dalla quale ha tre figli, e nel 1972 prende in affitto per cinquantamila lire al mese una casa di trenta metri quadri in un quartiere popolare. Trova lavoro nella stessa strada, come fattorino di una tipografia, e si iscrive alla sezione comunista di via Donna Olimpia.

Quando può trascorre le vacanze in Sardegna con la sua famiglia.

Non legge quasi mai il giornale ma quel giorno sì e scopre che alle 19 di giovedì 10 giugno 1981 un bambino è caduto in un pozzo artesiano nelle campagne di Vermicino. Lo cercano a lungo finché qualcuno solleva la protezione e sente i lamenti di Alfredino Rampi, sei anni, prigioniero a 36 metri di profondità. Una tavola calata con una corda dagli speleologi si incastra nelle pareti impedendo la discesa dei soccorritori mentre una sonda con un microfono rilancia le richieste di aiuto e un tubo immette ossigeno nel pozzo. Viene mandato giù un biberon di latte, intanto le trivelle perforano il terreno fino a meno 32 metri. L’obiettivo è arrivare a meno 36 e poi, attraverso un varco orizzontale, raggiungere il bambino. Ma la trivella si blocca. Mentre si decide come procedere il padre, la madre e un vigile del fuoco, Nando, parlano in continuazione con Alfredino.

Si susseguono vari tentativi, pure con un martello pneumatico, e quando sembra quasi fatta si scopre che nel frattempo il bambino è scivolato a meno 64.  Ci provano due speleologi ma devono rinunciare.

Sul posto arrivano centinaia di curiosi, perfino il Presidente della Repubblica Sandro Pertini è lì per dare conforto ai genitori. La tv trasmette in diretta dalle campagne di Vermicino, senza sosta.

E’ il 12 giugno, Alfredino è nel pozzo da 50 ore: Angelo Licheri ha finito di lavorare alle otto di sera e si precipita a casa a vedere la televisione che tiene incollati 32 milioni di italiani in attesa del lieto fine. Sta per mettersi a tavola con la moglie e i tre figli, tra i dieci e i cinque anni, ma il fattorino sardo non può stare a guardare. Era già entrato in azione dieci anni prima, a Nuoro: nell’agosto 1971 lavorava come cuoco in un ristorante sull’Ortobene quando ci fu un incendio che uccise un pastore. I bambini di una colonia stavano per essere inghiottiti dalle fiamme, Licheri si era catapultato fuori: <Andai verso la colonia, caricavo quattro bambini per volta e li portavo sulla strada al sicuro, quando salvai gli ultimi tre ero una maschera di fumo>.

Non dice nulla alla moglie delle sue intenzioni, anche perché soffre di asma ed è stato da poco operato di ulcera: gli hanno tagliato un pezzo di intestino. E poi, non ha alcuna preparazione speleologica. Ma è piccolo e magro, pesa 40 chili, e vuole provarci. Esce, dice che va a comprare le sigarette.

Guida la sua Ford per un’ora fino a Vermicino, poi continua a piedi per tre chilometri, facendosi largo tra la folla.

Lo vedono spuntare dal nulla in un campo incolto vicino a quel piccolo paese delle campagne romane dove ci sono i genitori di Alfredino, centinaia di curiosi dietro le transenne, i vigili del fuoco, le luci delle fotoelettriche. I soccorritori chiedono silenzio per sentire attraverso le sonde la voce del bambino.

<Ho già fatto discese simili, ce la posso fare>: Angelo si muove con tanta sicurezza e determinazione da far credere a tutti di essere uno speleologo esperto e cosciente di quello che sta facendo. C’è una trattativa, la situazione è disperata. Gli dicono “sì”.

Lo vestono. Lo legano alle caviglie con una corda e lo calano a testa in giù fino a 64 metri di profondità.

La moglie lo vede in tv e all’angoscia per Alfredino aggiunge quella per il marito.

Angelo non si risparmia. Appena arriva dove il cunicolo tende a stringersi cerca di sfilare le mani del bambino, una è dietro il sederino, l’altra sotto la coscia sinistra. Liberare quella dietro la schiena è difficile. Raddrizza la testa che è incastrata reggendola con la sua testa, afferra il polso di Alfredino e lo riporta in posizione normale. Il bambino è come seduto su una sedia. Gli pulisce gli occhi e la bocca quasi satura di fango, si chiede come faccia a resistere. Cerca di prenderlo sotto le ascelle ma gli sfugge come un’anguilla. Tenta di stringerlo all’altezza dei gomiti ma sguscia via. Lo prende per i polsi e sente un trac: sono bruschi quando lo tirano su e Angelo è costretto a mollare. Allora prova a sollevargli le gambe, anche con la cinghia di plastica, lo imbraga facendola passare sotto le ascelle e dietro la nuca. Dà il via. Da su tirano ma la cinghia si spezza. Angelo grida: “calma, piano”. Lo sentono e gli rispondono. Allora fa un altro tentativo: aggiusta la cinghia con un nodo e prova di nuovo a imbragare il bambino ma la cinghia adesso è corta. Fa un altro tentativo e si spezza nuovamente. A quel punto tenta di tirarlo su afferrandolo per la canottiera: ma niente, è impossibile.

Nel frattempo Angelo parla con Alfredino: “Ti porterò in Sardegna a fare le vacanze, a casa mia, ci sono luoghi bellissimi e dimenticherai questo brutto posto”.

Ci prova per quasi un’ora, sette volte il bambino scivola via. Non ce la fa, il gelo lo sta letteralmente paralizzando, Angelo è sull’orlo del collasso, ha una nube nera sugli occhi: lo tirano su forse appena in tempo. E si dispera. In superficie è sorretto da un pompiere, non ha neppure la forza di reggersi, lo sguardo è perso nel vuoto, devono portarlo a braccia fino all’ambulanza che corre verso l’ospedale di Frascati mentre i medici gli somministrano un cardiotonico e gli sistemano sul volto una maschera per l’ossigeno.

Due ore dopo Alfredino muore. Lo scopre uno speleologo napoletano che per due volte si cala nel pozzo dopo Angelo: “E’ rigido, non respira”.

In ospedale Angelo Licheri parla con rabbia: “Dovevo riuscirci, era un impegno d’onore, qualcosa che sentivo di fare anche a costo della vita. Noi sardi siamo tenaci, orgogliosi, risoluti. Riusciamo sempre nelle imprese difficili”.

Gli rendono omaggio tutti, a cominciare dal sindaco di Roma che va a trovarlo. Viene invitato pure al ministero dell’Interno e si presenta in calzoncini corti.

Difficile riprendersi, impossibile dimenticare. Per anni sogna la morte. Un incubo che non finisce.

Si separa dalla moglie, si ammala, il diabete costringe i medici ad amputargli una gamba, negli ultimi tempi è quasi completamente cieco ma tutto questo è nulla in confronto alla ferita che non si rimargina: la sconfitta.

Questa tragedia è nella memoria collettiva degli italiani, così come la foto che immortala il tentativo fallito di un uomo generoso. Che non ha mai voluto niente, non ha mai cercato gloria nè popolarità. Viveva con una piccola pensione, “isolato ma non solo”.

Angelo Licheri è morto lunedì mattina in un casa di cura, a Nettuno. Aveva 77 anni.

Per tutti sarà sempre e soltanto l’eroe di Vermicino.

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