"Ho camminato per due mesi tra file di pazienti addormentati, intubati, con quadri identici: polmonite gravissima". Uno scenario che mai avrebbe immaginato Annalisa Malara, anestesista 38enne dell'ospedale di Codogno, quando il 20 febbraio si è trovata davanti il coetaneo Mattia, il paziente 1 d'Italia.

"Ero l'unico rianimatore di turno - racconta - e mi è capitata una combinazione tremenda: paziente giovane che stava morendo di polmonite devastante, peggiorata inesorabilmente nel giro di 24 ore, non rispondente alle cure, accompagnato da moglie incinta con pancione all'ottavo mese, spaurita e distrutta. Sentivo il peso della responsabilità enorme".

E' stata lei a diagnosticare il primo caso italiano di Covid-19: "Ho pensato all'impossibile, poi quella cena con un manager ritornato dalla Cina, riferita dalla moglie, mi ha acceso il campanello". Si rivelerà una falsa pista, perché non è stato quel manager a contagiare Mattia, tuttavia è quella che la porta - "forzando il protocollo" - ad eseguire il tampone che darà il via alla crisi più grave del nostro Paese dai tempi della Seconda Guerra Mondiale.

Da quel tampone è cambiata la vita degli italiani, e anche la sua: "Non vedo di persona i miei genitori da allora", confessa. Per Annalisa la quarantena è iniziata subito: "Chiusa totalmente in casa per 4 giorni, la spesa me la lasciava la vicina sullo zerbino. Poi ho fatto il tampone, è risultato negativo e sono tornata al lavoro con mascherina e protezioni".

DUE MESI DIFFICILI - Parla di due mesi "intensi", che "ci hanno provato da un punto di vista fisico e psicologico, siamo stati travolti da una quantità impressionanete di malati di ogni età, tantissimi giovani come Mattia". Ora che i numeri sono in calo, "con i colleghi sogniamo il giorno in cui dimetteremo l'ultimo malato di Covid e ce ne andremo tutti al mare". O in montagna, "in mezzo alla natura come amo fare, tornare a camminare senza pensieri".

Sono tanti i "Mattia" passati nel reparto di Annalisa: "La notte stessa della prima diagnosi abbiamo ricoverato un altro giovane di 43-44 anni, e poi tanti altri fra i 40 e i 55. Turni di 14-15 ore dovendo gestire tutti questi malati fra terapia intensiva e area sub.intensiva. Partivamo con sette posti letto intensivi, nel picco siamo arrivati a 26 malati Covid intubati".

Ora, "da una decina di giorni i numeri stanno calando e siamo riusciti a tornare a 13 pazienti in terapia intensiva, che sono sempre il doppio del normale", spiega.

"NON E' UN'INFLUENZA" - Quando ha cominciato a veder crescere i malati in condizioni gravi ha capito "che non si trattava di una malattia paragonabile all'influenza". E ha subito pensato alla sua famiglia: "Per tutelare i miei genitori che hanno 65 anni li vedo solo via Whatsapp, e ho avvertito subito mia sorella che vive in Spagna di limitare i contatti e stare all'erta. Lì l'epidemia ancora non era arrivata con l'intensità che vediamo in Italia e speravo non succedesse, ma non è stato così".

Quel 20 febbraio, nel dramma, "è stato una fortuna - ragiona - perché se per la nostra zona era ormai tardi, siamo almeno riusciti a limitare i contagi in altre aree d'Italia".

"MAI SENTITO MATTIA" - Ogni tanto ripensa a Mattia: "Non l'ho sentito personalmente e ho evitato di cercare contatti su Facebool, ma quando è stato trasferito a Pavia mi facevo aggiornare di continuo sulle sue condizioni. Ho anche conoscenze in comune con la moglie, quando sono arrivati in ospedale a Codogno lei mi ispirava una grande tenerezza, ci tenevo al lieto fine. Se vorrà mi contatterà lui quando e se ne avrà voglia. Immagino di non ricordargli cose benne e non voglio essere inopportuna".

(Unioneonline/L)
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