Giulia Cecchettin è stata uccisa «non solo» dalla «mano violenta» di Filippo Turetta ma dalla «giustificazione e dal menefreghismo» verso tutti quei segnali che anticipano i femminicidi. Una reazione durissima quella che Elena Cecchettin affida alle storie di Instagram per commentare la sentenza che ha condannato l'ex fidanzato 23enne della sorella all'ergastolo, senza però riconoscere l'aggravante della crudeltà e dello stalking.

Non riconoscere quell'aggravante, dice la sorella di Giulia, significa non solo mancare di rispetto alla famiglia. È «l'ennesima conferma che alle istituzioni non importa nulla delle donne». Sei vittima «solo se sei morta, quello che subisci in vita te lo gestisci da sola». E invece la violenza di genere «non è presente solo dove è presente il coltello o il pugno, ma molto prima», è il suo ragionamento, che si conclude con una domanda: «Quante donne non potranno mettersi in salvo dal loro aguzzino se nemmeno nei casi più palesi viene riconosciuta la colpa?».

Parole che arrivano proprio nel giorno in cui suo padre, Gino Cecchettin, con le istituzioni stringe un patto per fare in modo che altri padri, madri, fratelli e sorelle non debbano piangere altre Giulie. Al ministero dell'Istruzione e del merito il papà di Giulia e Giuseppe Valditara, dopo un faccia a faccia di oltre un'ora, firmano un protocollo d'intesa che consentirà alla Fondazione nata nel nome della studentessa di portare avanti nelle scuole la sua «missione», per promuovere la cultura del rispetto e dell'educazione.

L'intesa prevede anche l'organizzazione di incontri per i giovani, la creazione di un gruppo di lavoro congiunto e la verifica dei risultati ottenuti. Tutto per far sì che quella cultura del rispetto diventi patrimonio comune. È appunto ciò che si propone Cecchettin con la fondazione intitolata a Giulia: «È il principio della cooperazione - ha detto - verso obiettivi comuni. Penso che noi per primi abbiamo dato un segnale di rispetto per le persone, con questa riunione. Oggi ci siamo trovati per parlare di un problema sociale esistente, dai femminicidi alla violenza sulle donne al rispetto reciproco tra i sessi. Lavoreremo su questo».

Avrebbe dovuto lavorarci senza sosta anche Filippo Turetta, che ha trascorso in carcere a Verona la prima notte dopo la condanna alla massima pena. Ai volontari del carcere veronese il ragazzo è apparso «distrutto» e «con evidenti problemi psicologici». Continua a essere detenuto nella terza sezione - quella dei delitti gravi - in cella con altri compagni; non lavora, frequenta un corso di perfezionamento di inglese, legge libri, e pare stia imparando a suonare uno strumento. Ogni tanto si incontra con i genitori e il fratello. Ma la condanna alla massima pena - come hanno ricordato in aula anche il pm e i vari legali - non vuol dire "fine pena mai".

La Corte d'Assise di Venezia non ha disposto l'isolamento diurno e, in base alla legge, in caso di comportamento esemplare dopo 10 anni (ma uno è già scontato, quindi sono 9) gli potranno venire accordati dei permessi per frequentare percorsi formativi professionalizzanti all'interno o all'esterno del carcere. Dopo 26 anni - 21 se il comportamento sarà irreprensibile - sarà possibile ottenere la semilibertà. Il tutto comunque dopo il vaglio del Tribunale di Sorveglianza, e dopo che la condanna sarà diventata definitiva.

(Unioneonline)

© Riproduzione riservata