È un ottimista e avendo due anime, una italiana e una americana, riesce a vedere i pregi e i difetti dei due lati dell’Atlantico. Alec Ross, di recente in Sardegna per il convegno promosso dalla Fondazione Occorsio sulla Sicurezza, analizza le questioni che mettono insieme geopolitica, guerre e sviluppo della tecnologia e dell’innovazione. Autore di bestseller tradotti in una ventina di lingue, docente alla Bologna Business School dell’Università del capoluogo emiliano, siede nei consigli di amministrazione di aziende nei settori della tecnologia, della manifattura, dell’educazione, del capitale umano, della salute e della cybersecurity. E soprattutto, durante l’amministrazione Obama (di cui è stato consulente nella campagna elettorale), ha ricoperto il ruolo di Consigliere per l’Innovazione del Segretario di Stato, incarico creato per lui al fine di modernizzare la diplomazia e portare soluzioni innovative nella politica estera Usa.
Partiamo dallo scenario geopolitico: oggi l’intelligenza artificiale e la tecnologia non sono solo opportunità ma anche armi di guerre sempre più ibride e meno tradizionali?
«La tecnologia ha sempre plasmato la guerra. Tutti i conflitti sono sempre stati, e restano, ibridi. Basta tornare alla guerra di Troia e vedere come gli strumenti di inganno venissero usati nei conflitti. Oppure osservare l’impatto delle innovazioni tecnologiche con la balestra, la polvere da sparo, i carri armati e le armi nucleari. L’intelligenza artificiale rappresenta soltanto il passo successivo in questa progressione, anche se, a differenza di molte delle invenzioni precedenti, queste tecnologie tendono a rendere l’uso della forza sempre più preciso, piuttosto che sempre più distruttivo».
Con gli strumenti tecnologici oggi si possono influenzare le elezioni o scatenare guerre: come possiamo ovviare o combattere queste degenerazioni?
«Ricordiamo che non tutti gli usi della tecnologia sono negativi. Ho guidato la politica tecnologica per la campagna presidenziale di Barack Obama e l’abbiamo usata per coinvolgere un numero maggiore di persone nell’elettorato. Certo, ci sono delle sfide e vanno affrontate, ma non credo a una visione distopica. Per quanto riguarda la domanda su come contrastare queste degenerazioni, penso che esistano sia rimedi politici sia tecnologici. Per esempio, nell’ambito dell’intelligenza artificiale, una forma di watermarking avanzato può aiutare a distinguere quali immagini sono legittime e quali invece sono state create dall’IA».
Insomma, lo scenario mondiale sarà dominato da due o tre superpotenze, magari neanche troppo democratiche? E il rischio di una terza guerra mondiale come lo valuta?
«Non penso che due o tre superpotenze domineranno il mondo. È un dato oggettivo che oggi Stati Uniti e Cina siano le potenze economiche e militari più forti, ma vediamo anche poteri emergenti nel Golfo, in India e altrove. Scelgo di essere in larga parte ottimista sull’idea di una terza guerra mondiale, perché credo che chiunque abbia un minimo di buon senso sappia che una quarta guerra mondiale verrebbe combattuta con bastoni e pietre, a causa della distruzione provocata da una terza guerra mondiale, che potrebbe benissimo includere armi nucleari. Di fronte a uno scenario del genere, scelgo di sperare che prevalgano il buon senso e l’umanità».
Di recente è stato a Cagliari per il convegno promosso dalla Fondazione Occorsio sulla Sicurezza, quale messaggio ha voluto lanciare e quanto sono importanti incontri come quello dei giorni scorsi?
«Penso sia importante che l’Europa e l’Italia comprendano che lo scenario geopolitico sta cambiando. Di conseguenza, le soluzioni devono essere sviluppate sia a livello europeo sia a livello nazionale. Non possiamo contare sulle alleanze tradizionali o sulla protezione degli Stati Uniti. La difesa deve essere garantita dall’interno, e un confronto aperto di prospettive su come arrivarci rappresenta un punto di partenza necessario».
L’Europa e l’Italia in che situazione si trovano rispetto all’intelligenza artificiale: siamo indietro?
«L’Europa è molto, molto indietro nello sviluppo dell’intelligenza artificiale. Non solo rispetto agli Stati Uniti e alla Cina, ma anche rispetto ai Paesi del Golfo, forse persino rispetto a India, Corea e Giappone. Il talento qui non manca, ma i talenti sono intrappolati in sistemi regolatori che li costringono a lasciare il continente se vogliono sviluppare innovazioni in grado di cambiare il mondo».
Noi europei tendiamo a creare le regole, come successo di recente con la normativa sull’intelligenza artificiale, mentre il mondo corre?
«È come una partita di calcio. Ci sono due squadre in campo, una americana e una cinese, e invece di schierare una squadra, gli europei hanno deciso di fare l’arbitro. Ma l’arbitro non vince mai. Può fischiare i falli, può mostrare i cartellini gialli, ma alla fine non c’è nessuna coppa per l’arbitro. Questa ossessione per le regole, invece di mettere una squadra in campo, ha portato a 25 anni di stagnazione economica, e continuerà così a meno che la mentalità e la cultura non cambino da una logica di regolamentazione a una di investimento e innovazione. Non mi dà alcun piacere dire queste parole. Vedo il talento presente qui, ma vedo anche le regolamentazioni e la burocrazia che soffocano».
La Sardegna è stata una delle Regioni più all’avanguardia negli anni Novanta sull’innovazione ma poi si è fermata: secondo lei servono troppi investimenti per stare al passo con i tempi o è una questione culturale?
«Entrambe le cose. Sì, l’investimento è fondamentale. Senza investimenti non ci sarà assolutamente alcuna innovazione scientifica o tecnologica. Ma è anche necessario affrontare le dimensioni culturali che ci frenano. Prima di tutto, dobbiamo creare più spazio per i giovani. Molte delle innovazioni più interessanti e importanti al mondo arrivano da persone tra i venti e i trent’anni che in Sardegna sono ancora visti come ragazzi e non vengono considerati degni di vere responsabilità o investimenti. In secondo luogo, dobbiamo cambiare la cultura intorno al fallimento. Troppo spesso in Italia e in Sardegna, se provi a fare qualcosa e non funziona, diventa uno scandalo. Ti sei messo in ridicolo e vieni punito eccessivamente. Invece di considerare ogni fallimento come uno scandalo, credo che dobbiamo cominciare a vederlo come un’opportunità di apprendimento».
Nell’Isola, come nel resto del Paese, si assiste alla fuga di tanti giovani che vanno a lavorare fuori, soprattutto nel campo della tecnologia: perché questo avviene e come frenare questa diaspora?
«Le ragioni sono molte, e tutto parte dal fatto che ai giovani vengono date più responsabilità in età più precoce rispetto a quanto accade in Sardegna, dove la mentalità delle baronie resta troppo forte. Penso ci sia anche troppo poca meritocrazia e troppa dipendenza da sistemi di clientelismo e raccomandazione. Dovremmo preoccuparci meno di chi è lo zio di qualcuno o della famiglia da cui proviene, e molto di più delle competenze che possiede. C’è poi l’aspetto salariale. Gli stipendi in Italia e in Sardegna sono molto, molto bassi rispetto ad altre parti d’Europa e del mondo. È difficile dire a un giovane di accettare la metà della paga per restare sull’Isola, quando potrebbe guadagnare più del doppio lasciando la propria casa. È una tragedia, ma è qualcosa che dobbiamo riconoscere a occhi aperti».
C’è anche un’altra questione di cui si parla poco rispetto alla sicurezza: i satelliti. L’Europa rischia di stare indietro?
«Trovo molto strano che si riesca a riconoscere un problema, come il ritardo sui satelliti, e se ne parli per anni e anni senza che poi accada nulla. Ci sono commissioni, studi, conferenze, ma se alla fine della fiera non ci sono investimenti su larga scala, la dipendenza dagli stranieri continuerà. Se non ti piace Elon Musk e non ti fidi di lui, allora devi portare sul mercato prodotti alternativi tuoi. E non lo puoi fare creando altre commissioni, altri studi, altre discussioni. Lo puoi fare solo con investimenti, con disciplina e con velocità».
Tirando le somme lei è ottimista o pessimista?
«Sono un orgoglioso cowboy americano ottimista. Solo gli ottimisti cambiano il mondo. I pessimisti piangono nel loro caffè e si lamentano di un mondo immaginato, inventato e guidato dagli ottimisti. Solo gli ottimisti cambiano il mondo».
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