Che anno formidabile per la letteratura mondiale quel lontano 1922. James Joyce pubblicava l’Ulisse, una delle pietre miliari nella genesi del romanzo moderno, un romanzo complesso, con più registri narrativi, in cui si racconta di una sola giornata, il 16 giugno 1904, vissuta da un gruppo di abitanti di Dublino. Thomas Eliot invece consegnava all’umanità “Terra desolata”, un poemetto, scritto mentre soggiornava a Losanna per curare un grave esaurimento nervoso, considerato uno dei capolavori del Novecento: la terra desolata dei campi di battaglia di tutte le guerre, ma talvolta anche Londra. Infine Herman Hesse, scrittore tedesco premio Nobel, che aveva scelto Montagnola, in Svizzera, come sua dimora, ci ha regalato Siddharta, la bibbia di una generazione, un viatico verso l’Oriente con gli occhi di un occidentale. Un librino, pubblicato in Italia da Adelphi nella collana Piccola biblioteca, accolto tiepidamente, diventato negli anni uno dei long seller dell’editoria, mai uscito dalle classifiche. Per capire, dal 1975, il libro ha venduto oltre tre milioni di copie, prima in America, poi in ogni parte del mondo, trasformando l’aforisma di Siddharta “so pensare, so aspettare, so digiunare” in una bussola per ritrovarsi. In Italia il romanzo, scritto in tedesco, non è stato tradotto né da un germanista, né da un traduttore professionista, ma da un grande musicologo, un raffinato intellettuale come Massimo Mila che si misurò con la traduzione mentre faceva il partigiano.

È di questo curioso romanzo, scritto dal figlio di una coppia di missionari evangelici, con studi teologici alle spalle, tormentato nell’anima al punto da essere ricoverato in una clinica per disturbi mentali, che parliamo. Nel 1911, Hermann Hesse, trentaquattrenne, intraprende un viaggio in compagnia dell’amico e pittore Hans Sturzenegger: meta l’India, dove i genitori avevano prestato opera di missionari. In realtà riesce a visitare solo lo Sri Lanka e l’Indonesia, poi lo blocca la dissenteria, e resta deluso perché non riesce a trovare il pathos mistico che cercava. «Noi veniamo al Sud e in Oriente spinti da un presagio oscuro (…) e qui troviamo il paradiso (…) Ma noi stessi qui siamo diversi, siamo stranieri e senza diritto di cittadinanza, abbiamo perduto da tempo immemorabile il paradiso, e quello nuovo che possediamo e vogliamo costruire non si trova all’equatore e nei caldi mari d’Oriente, ma è dentro di noi e nel nostro futuro di uomini nordici», annota mentre si trova in Sri Lanka. In una lettera scritta nel 1919 si legge: «Da molti anni sono convinto che lo spirito europeo è in declino e ha bisogno di tornare alle sue fonti asiatiche. Per anni ho ammirato Buddha e ho letto la letteratura indiana già nella mia prima gioventù (…) il mio viaggio indiano è stato solo una piccola aggiunta o un’illustrazione a queste esperienze». E Siddharta è certamente il centro del suo interesse per la cultura indiana. Dice Hesse: «Non solo ho rilasciato occasionalmente professioni di fede nei miei articoli, ma una volta, poco più di dieci anni fa, ho cercato di compendiare il mio credo in un libro. Questo libro si chiama Siddharta», che in bramino significa “colui che cerca”. Eccolo, il giovane divorato dall’ansia di conoscere la verità mentre dice addio agli affetti. Si fa Samana, monaco della foresta. Ma non gli basta, e allora decide di conoscere il Buddha, sperando che nelle sue parole si manifesti quell’assoluto per il quale ha sacrificato ogni cosa. Ma anche Gotama Buddha, pur affascinandolo, non riesce a trattenerlo. Decide di continuare la sua ricerca da solo, attraverso l’esperienza, compresa quella dell’amore fisico, che apprende da Kamala. Ma ancora non trova pace interiore, perché si rende conto che l’amore per l’uomo e dell’uomo non riesce a colmare la grande sete di conoscenza e di contatto profondo con l’essere. Sarà solo l’esperienza dell’incontro con un figlio che non sapeva di avere e la consapevolezza del dolore che il figlio gli dà andando via, è lo stesso che lui procurò a suo padre, facendo la medesima scelta. Questa realtà in qualche modo circolare, lo porta a una profonda riflessione sull’essere umano.

Ultimato il libro, Hesse dubita di essere riuscito a «riformulare per la nostra era un ideale indiano di vita meditativa». Cento anni dopo e davanti a un successo che non conosce sosta, i dubbi possono essere cancellati.

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