Dieci anni dopo c’è un segno tangibile della memoria dove due canali incontrano il mare, in via Escrivà: il monumento che ricorda le vittime dell’alluvione è duro come il granito e il ricordo di quel 18/11. Una data che è diventata uno slogan, un hashtag rilanciato sui social, un monito a non dimenticare se mai qualcuno potesse farlo.

 Nove monoliti – così l’ha pensato l’artista Nicola Filia – nove storie che nessuno ha dimenticato.

18/11 pomeriggio. Piove, senza sosta, dal giorno prima. Cielo color piombo, vento di scirocco che impedisce ai canali – troppo spesso soffocati dal cemento - di fare il loro lavoro e far defluire l’acqua in mare. Quella che scende sulla città e quella – forse ancora più copiosa – che arriva nella piana di Olbia dalle colline che la circondano.  È allerta ma senza una vera consapevolezza che questa volta non si tratterà solo di svuotare cantine. Allerta senza uomini e mezzi: in servizio ci sono sette vigili del fuoco. La bomba arriva, i canali esondano e interi quartieri – quelli che un tempo erano paludi e a ridosso dei canali – finiscono sott’acqua.

Le storie

Quel pomeriggio Patrizia Corona era con la figlia Morgana, due anni, che era uscita poco prima dall’asilo nido, e con il marito. Un salto a salutare un’amica e poi verso casa in quella serata che non promette niente di buono, sotto la pioggia incessante. L’acqua, nera di malasorte, come nei versi di Fabrizio De Andre, porta via la via, invade ogni spazio e nasconde i confini tra il canale - senza protezioni - e la strada che lo costeggia. L’auto ci finisce dentro, Patrizia e Morgana vengono inghiottite, strappate alle mani di Enzo che non riesce a trattenerle. Trovano i loro corpi nella tarda serata e la notizia rimbalza in una città attonita dove si fa fatica a seguire il corso degli eventi. “Sono morte una mamma con una bambina”. Trovano anche lui, sotto choc e disorientato che non vuole lasciare quel canale.

Patrizia Corona con la figlia Morgana Giagoni (Archivio L'Unione Sarda)
Patrizia Corona con la figlia Morgana Giagoni (Archivio L'Unione Sarda)
Patrizia Corona con la figlia Morgana Giagoni (Archivio L'Unione Sarda)

Francesco Mazzoccu con il suo Enrico, tre anni, voleva raggiungere la moglie Carolina in città. Vivevano a Raica, appena fuori Olbia. La macchina viene travolta dal fiume in piena.  Francesco è atletico e coraggioso. Stringe Enrico a sé dentro il giubbotto, in un abbraccio disperato, sale su un muretto, si aggrappa a un palo. Lo vede un uomo che scende sulla statale, ferma degli operai, chiede aiuto. Ma in quel momento nessuno è in grado di salvare Francesco ed Enrico. In serata figurano tra i dispersi che è una lista potenzialmente molto lunga. La mattina ritroveranno i corpi.

FRANCESCO MAZZOCCU CON IL FIGLIO ENRICO (Archivio L'Unione Sarda)
FRANCESCO MAZZOCCU CON IL FIGLIO ENRICO (Archivio L'Unione Sarda)
FRANCESCO MAZZOCCU CON IL FIGLIO ENRICO (Archivio L'Unione Sarda)

Anna Ragnedda che di anni ne aveva 83, invece, non ha avuto neanche la possibilità di salvarsi. È a casa, in un appartamento al piano terra di via Lazio nel rione Baratta. Invalida, costretta a letto e sola, in  quel momento la badante non c’è e nessun familiare riesce a raggiungerla nelle strade trasformate in fiumi. L’acqua invade l’appartamento e la uccide. Anche Maria Massa è anziana e anche lei in quel momento è sola nella sua casa del rione Bandinu. Cerca di scappare e cade. Il suo corpo viene ritrovato il giorno dopo.

La casa in via Lazio dove è morta Anna Ragnedda vittima dell'alluvione (Archivio L'Unione Sarda)
La casa in via Lazio dove è morta Anna Ragnedda vittima dell'alluvione (Archivio L'Unione Sarda)
La casa in via Lazio dove è morta Anna Ragnedda vittima dell'alluvione (Archivio L'Unione Sarda)

 Erano partiti da Tempio per raggiungere Olbia nel tardo pomeriggio Bruno Fiore, 68 anni, con la moglie Sebastiana e la consuocera Maria Loriga, andavano a trovare i figli. E Olbia è là, ormai a pochi chilometri, di fronte a loro, nella discesa che porta da Monte Pino alla pianura, dopo un viaggio sotto un muro d’acqua. Ma quella strada, percorsa tutti i giorni nei due sensi da centinaia di galluresi, crolla e si apre una voragine che li inghiotte. E ci finisce dentro anche una ragazza, Veronica Gelsomino, salva per miracolo ma ferita.

La voragine di Monte Pino (Archivio L'Unione Sarda)
La voragine di Monte Pino (Archivio L'Unione Sarda)
La voragine di Monte Pino (Archivio L'Unione Sarda)

La vita e la morte

Quel pomeriggio il confine tra la morte e la vita era molto sottile. La salvezza arriva con i gommoni e le barchette dei pescatori, con le corde da arrampicata, le braccia di chi ha sollevato di peso gli anziani per portarli in salvo, con la prontezza o la fortuna di prendere una strada giusta invece di quella sbagliata, di tornare a casa un po’ prima, decidere che la spesa si può fare domani, correre ad andare a prendere i bambini, portarli via sulle spalle prima che l’apocalisse si abbattesse sulla scuola. Centinaia di sliding doors si sono aperte quella sera ad Olbia che hanno fatto la differenza tra vivere e  morire.

Solo al mattino si fa la conta delle vittime: sei morti in città, tre a Monte Pino. E poi c’è Arzachena dove è stata sterminata un’intera famiglia brasiliana che viveva in un seminterrato: Isael Passoni con la moglie Cleide e i figli Laine e Weriston di 16 e 20 anni. 

Un quartiere di Olbia dall'alto dopo il passaggio del ciclone Cleopatra (Archivio L'Unione Sarda)
Un quartiere di Olbia dall'alto dopo il passaggio del ciclone Cleopatra (Archivio L'Unione Sarda)
Un quartiere di Olbia dall'alto dopo il passaggio del ciclone Cleopatra (Archivio L'Unione Sarda)

In città si spala per giorni, settimane. La stima delle prime ore parla di quattromila sfollati, c’è chi lentamente tornerà nelle case ripulite dal fango, chi ha perso tutto e deve ricominciare. Olbia è teatro e insieme artefice di una gara di solidarietà spettacolare. Angeli del fango in ogni forma, come ormai siamo abituati a vedere nelle sempre più frequenti alluvioni: i ragazzi che sistemano scuola e quartieri, centinaia di cittadini che spalano nelle strade o offrono un posto letto, i volontari delle associazioni arrivati da tutta la Sardegna, e non solo, che svuotano cantine, raccolgono viveri ed elettrodomestici, preparano e distribuiscono pasti caldi.

Dieci anni dopo nella città risorta (ma che ancora deve fare i conti con la sua natura di città d’acqua) c’è chi dona il granito e chi allestisce il verde, chi offre installazioni luminose o ferro, chi ha prestato il proprio ingegno e la propria competenza per il monumento in riva al mare che ricorda il giorno più tragico di Olbia dal dopoguerra ad oggi. Uno sforzo collettivo per costruire un luogo della memoria. Simbolo di una tragedia che non può essere passata invano.

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