Infodemia, sostantivo femminile: circolazione di una quantità eccessiva di informazioni, talvolta non vagliate con accuratezza, che rendono difficile orientarsi su un determinato argomento per la difficoltà di individuare fonti affidabili. Così la Treccani, fonte affidabile per eccellenza, anche nella versione online.

La parola è la traduzione dell’inglese “infodemic”, creata 18 anni fa da David J. Rothkopf per indicare un’epidemia di cattiva informazione: un male dei nostri tempi. L’importanza della parola “infodemia” è cresciuta all’ombra del Covid-19, tanto che da subito, già nel febbraio 2020, quando il coronavirus era ancora una questione apparentemente solo cinese, l’Oms (Organizzazione mondiale della sanità: l'agenzia delle Nazioni Unite specializzata sulle questioni sanitarie) ha lanciato l’allarme: “La deformazione della realtà nel rimbombo degli echi e dei commenti della comunità globale su fatti reali o spesso inventati è forse il maggiore pericolo della società globale nell’era dei social media”.

Non era un allarme esagerato, come si è visto. Già un mese dopo, ha poi rivelato il Washington Post, il 50 per cento dei contenuti pubblicati su Facebook riguardava il Covid-19, e in buona parte quei contenuti erano falsi: notizie create apposta per fare disinformazione. A fini politici, come ha confermato uno studio del britannico Institute for strategic dialogue: tra il gennaio e l’aprile del 2020 ottanta milioni di interazioni online erano state generate dalle informazioni false diffuse sui social da 34 siti di estrema destra. Mentre Avaaz, un'organizzazione non governativa internazionale, ha calcolato che nell’aprile 2020 i contenuti altrettanto falsi di altri 82 siti hanno totalizzato mezzo miliardo di visualizzazioni.

Ne ha parlato di recente sul New York Times Shoshana Zuboff, la docente della Harvard business school autrice del libro “Capitalismo della Sorveglianza”, che ha rivelato al mondo le storture del modello economico imposto dai giganti del web. Fra queste storture, per la Zuboff, c’è anche il loro ruolo di diffusori di cattiva informazione nel pieno di un’emergenza sanitaria mondiale.

Ormai è chiaro: oltre a combattere con un virus di cui a gennaio 2020 non si sapeva nulla e ora contro le varianti create dalle sue mutazioni, il mondo ha dovuto vedersela anche contro una gigantesca e altrettanto contagiosa ondata di cattiva informazione, capace di diffondersi in tutto il mondo per effetto della rivoluzione digitale. Viviamo in un mondo dove, ha calcolato qualcuno, negli ultimi due anni è stato prodotto un quantitativo di dati pari a quello prodotto negli ultimi cinque millenni. Non solo: nei social media, estremizzando, uno vale uno, quindi un competente vale quanto un non competente, e gli algoritmi spingono non i contenuti più affidabili ma quelli che hanno maggiori probabilità di essere condivisi e creare interazioni: un mix particolarmente pericoloso in uno scenario dove è in gioco la salute.

D’alto canto, però, fanno parte dell’infodemia anche i danni provocati da un’esposizione mediatica massicce. Anche le notizie vere, oltre certi dosaggi, fanno male. Se ne è occupato, di recente, uno studio pubblicato da Health Psycology, rivista dell’associazione degli psicologi americani. Com’era emerso già durante precedenti crisi sanitarie (Sars, Ebola) e non sanitarie (attentati terroristici), le ripercussioni sono gravi sia in termini di sofferenza immediata in una popolazione angosciata e incerta (ricordate gli assalti ai supermercati per fare incetta di carta igienica, alcol, acqua in bottiglia e disinfettante per le mani?), sia per quanto riguarda gli effetti a lungo termine sulla salute fisica e mentale.

Non è solo questione di autorevolezza delle fonti, insomma. In una situazione di crisi sanitaria la gestione delle informazioni è un problema medico: e questo è un altro dei temi su cui il Sars-Cov 2 sembra aver trovato drammaticamente impreparate le democrazie occidentali. Un tema su cui è urgente interrogarsi e dotarsi di protocolli.

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