All’inizio non li noti. Al centro della foto, in un bel bianco e nero molto contrastato, c’è un uomo, accovacciato su una soglia. Un africano. Snello, le gambe lunghissime, siede, assorto. Un piede sulla soglia, l’altro giù. Lo sguardo verso il basso, davanti a sé. A sinistra, alle sue spalle, in piedi sul terreno dietro una pianta grassa spinosa in un vaso, forse un’agave, forse un’aloe, due ragazzini accigliati guardano dritti verso l’obiettivo. Più distante, oltre una delle palme che danno all’immagine un’immediato tocco esotico, un bambino. La foto sembra scattata da un interno.

La parte destra della foto è vuota: erba, che nel bianco e nero è una distesa frastagliata d’argento, e dietro quella che potrebbe essere una strada sterrata. Sulla soglia, proprio dove guarda l’uomo al centro della foto, c’è qualcosa. Due piccole macchie scure. L’occhio, ancora oggi, impiega un po’ per trasmettere l’informazione al cervello: il genere umano, dice un verso del poeta T. S. Eliot, “non può sopportare troppa realtà”. Occorre uno sforzo perché l’informazione arrivi: quegli oggetti scuri sono un piede e una mano. Un piccolo piede, una piccola mano.

Di questa foto sappiamo molte cose. Innanzitutto sappiamo quando e dove è stata scattata: anno 1904, in quello che quattro anni dopo questa foto e altre come questa sarebbe diventato il Congo Belga. All’epoca, però, era ancora una colonia privata appartenente al re del Belgio, Leopoldo II: un enorme campo di concentramento, costituito nel 1879 e riconosciuto internazionalmente nel 1884-85 con il grottesco nome di Stato Libero del Congo. Gli indigeni erano obbligati a raccogliere la preziosa gomma per conto del sovrano e padrone europeo, e chi non ubbidiva agli ordini subiva punizioni corporali. Le mutilazioni erano le più frequenti.

L’umo al centro dell’immagine, sappiamo ancora, si chiamava Nsala. Il piede e la mano erano il piedino e la manina di sua figlia. Si chiamava Boali e aveva cinque anni. Suo padre, Nsala, non aveva raggiunto il quantitativo giornaliero minimo di gomma da raccogliere. La bambina, dopo l’amputazione di una mano e un piede, fu uccisa. Anche la moglie di Nsala, madre di Boali, fu uccisa.

La foto è stata scattata da una donna che con la sua macchina Kodak ha cambiato la storia di quel paese sbattendo l’orrore della colonizzazione occidentale in Africa sotto gli occhi del mondo, occhi che come ancora oggi fecero una gran fatica a trasmettere alle coscienze quelle informazioni.

Si chiamava, da nubile, Alice Seeley, ma è passata alla storia col suo cognome da sposata: Alice Harris. Era inglese, e l’anno scorso si è celebrato il centocinquantesimo anniversario della sua nascita (il 24 amaggio) e il cinquantesimo della morte (il 24 novembre). Alice, missionaria, fu in Congo insieme a suo marito dal 1898 al 1901. L’edificio sulla cui soglia sedeva Nsala al momento in cui fu scattata la foto di cui stiamo parlando era la casa in cui i coniugi britannici alloggiavano, nel villaggio di Baringa: qui, ha raccontato la stessa fotografa, due uomini portarono i macabri reperti, avvolti in un fascio di foglie. Alice Harris propose a Nsala di posare per quella foto. L’uomo accettò. Quella foto ha cambiato la storia.

La missionaria e fotografa britannica non solo fu in grado di sopportare di vedere quegli orrori ma anche di documentarli con le sue foto straordinarie e terrificanti. Foto che, pubblicate inizialmente su una rivista, i coniugi Harris portarono in giro per il mondo, in un’esposizione itinerante che, solo negli Stati Uniti, ebbe 200 esposizioni in una cinquantina di città.

Il re Leopoldo II, scampato a un attentato organizzato contro di lui da un anarchico italiano che si chiamava Gennaro Rubino, nel 1908 fu costretto dal parlamento belga a cedere il controllo della colonia congolese allo Stato: il paese africano, da allora, si chiamò Congo Belga. Alice e suo marito lo visitarono nel 1911-12 e furono felici di vedere quanto fossero migliorate le condizioni dei nativi. Nel 1933 i coniugi Harris furono nominati cavalieri. Alice, fino alla morte, che la colse a cento anni e mezzo, rifiutò sempre di essere chiamata Lady.

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