Proprio oggi Donald Trump, stando agli annunci, dovrebbe interloquire con Vladimir Putin e poi con Volodymyr Zelensky. Sembrerebbe che l’oggetto del confronto con il Presidente Russo sarà incentrato sulla necessità di “fermare il bagno di sangue che sta uccidendo, in media, più di 5mila soldati russi e ucraini ogni settimana, e il commercio”.

E se oramai appare certo, ma davvero sarebbe stato sorprendente se fossero state annunciate le condizioni per una decisione di segno contrario, che l’invio di truppe in Ucraina non sia un tema ancora in discussione, per Kiev, il Cremlino, farebbe richieste irricevibili con riferimento, in particolare, alle regioni già occupate.

L’interrogativo, stando così le cose, si impone in maniera quasi obbligata: allo stato, ferme restando le condizioni venutesi a determinare dopo tre anni conflitto, quale ipotesi di “pace” può essere discussa in termini di contenuto? Non appare un mistero per alcuno che dal punto di vista di Vladimir Putin, quella che lui ha sempre definito “operazione militare speciale" dovrebbe poter assicurare il raggiungimento degli obiettivi prestabiliti, ossia le garanzie di sicurezza per la stessa Russia e la protezione dei cittadini di lingua russa in Ucraina, ad oggi, trascorsi ben tre anni di conflitto, le stesse militanze russe controllano, per quanto si apprende dai media, buona parte del paese.

Sicché non sembrerebbe dato comprendersi, da un punto di vista logistico, perché, anche a tutto voler considerare, Vladimir Putin dovrebbe accettare una qualsivoglia “rinuncia” nonostante le pressioni esercitate, da ultimo, da parte dello stesso Donald Trump, il quale si sarebbe detto pronto ad infliggere ulteriori sanzioni a Mosca se non si raggiungerà un accordo.

Le sue “condizioni”, del Presidente Russo si intenda, non sembrerebbero essere mai mutate nel tempo, né probabilmente, la minaccia di nuove sanzioni da parte degli Stati Uniti d’America potrà sortire l’effetto sperato considerato lo stato dell’arte emergente sul campo di battaglia: cessione dei territori alla Russia da parte dell’Ucraina con conseguente abbandono delle ambizioni di questa ultima di entrare nella Nato per divenire un paese neutrale.

Parimenti, l’Ucraina, potrebbe, di fronte a siffatte condizioni, e dopo tre anni di conflitto, e malgrado gli esiti emergenti dal campo di battaglia, voler continuare a “resistere” per tentare di evitare quella che apparirebbe una vera e propria resa tout court, soprattutto nella generale mancanza di qualsivoglia garanzia sulla sicurezza prossima e ventura del paese.

Quindi, di fatto, l’Unione Europea, nel suo complesso considerata, e/o taluni suoi Stati Membri e/o i loro leader, quale “forza contrattuale” può, o possono, spendere nella circostanza? Probabilmente (la formula dubitativa si impone) nessuna, visto e considerato, peraltro, che l’ultimo colloquio diretto intervenuto tra Mosca e Kiev, proprio a Istanbul, risale al lontano mese di marzo dell’anno 2022.

Dicendolo diversamente, e per comprendere, forse, la differente posizione rispetto agli Stati Uniti d’America di Donald Trump, l’Unione Europea, difficilmente potrà, con buona verosimiglianza trasformarsi, nel breve periodo, in un player di cosiddetto strong power, per la semplice quanto dirimente circostanza che sembrerebbero ad oggi difettare quelle imprescindibili caratteristiche di leadership idonee a concretizzare l’esistenza di una effettiva Unità Politica e Militare Europea. La proxy war, come da più parti definita, sembrerebbe (la formula dubitativa ancora si impone) essersi rivelata una scelta fallimentare: parrebbe aver portato ad emersione tutte le fragilità ancora esistenti all’interno del Vecchio Continente. Probabilmente, dovrebbe mutare la matrice ideologica dei meccanismi di integrazione europea al fine di impedire una polarizzazione del dibattito internazionale sul punto.

Giuseppina Di Salvatore – Avvocato, Nuoro

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