Esistono miti fasulli, ma che fanno veramente fatica a essere sfatati. Uno di questi miti è quello che accompagna i comportamenti dell'esercito italiano durante le campagne militari volute dal fascismo, prima e durante la Seconda guerra mondiale. La vulgata parla ancora del cosiddetto "bravo soldato italiano", pacifico, empatico, contrario alla guerra, cordiale e generoso anche quando vestiva i panni dell'occupante. Tutto diverso dal soldato tedesco: barbaro, sanguinario, imbevuto di ideologia razzista e pronto a eseguire gli ordini con brutalità.

Questa immagine buonista del nostro esercito vale anche per le nostre guerre coloniali, in particolare per la conquista dell'Etiopia condotta da Mussolini a partire dal 1936 con largo uso di armi chimiche ma presentata ancora oggi come una gioiosa avventura esotica in cui ogni soldato nostrano si prodigava in eroismi al canto di "Faccetta nera", la canzone che fece da colonna sonora a quell'impresa anacronistica e insensata.

Ian Cambell, uno dei maggiori esperti di storia etiope, ci racconta il lato oscuro del mito e una storia ben diversa nel suo documentatissimo saggio "Il massacro di Addis Abeba" (Rizzoli, 2018, Euro 25, pp. 660) dedicato a uno degli eventi più tragici e cruenti non solo del colonialismo nostrano, ma del colonialismo in generale.

La mattina del 19 febbraio 1937, ad Addis Abeba, il viceré Rodolfo Graziani e le autorità italiane che da nove mesi governavano buona parte dell'Etiopia si ritrovarono a celebrare la nascita del primo figlio maschio del principe Umberto di Savoia. Durante la cerimonia vi fu un grave attentato in cui morirono sette persone e fu ferito lo stesso Graziani. La risposta italiana all'attacco dei sostenitori del legittimo governo etiope fu tremenda. Il Duce, informato dell'accaduto, diede un ordine preciso: "Tutti i civili e religiosi comunque sospetti devono essere passati per le armi". Un giro di parole per dire che non ci doveva essere pietà e, infatti, non ce ne fu nei mesi successivi.

Furono settimane di vero terrore nella capitale etiope e nei suoi dintorni, settimane in cui assieme ai militari regolari imperversarono le milizie delle Camicie nere che con spietata efficienza eliminarono, tra le migliaia di innocenti passati per le armi, tutta l'élite etiope: militari, funzionari, intellettuali.

Al culmine di questa repressione brutale vi fu, nel maggio 1937, l'atto forse più vergognoso: l'eccidio di centinaia di monaci, preti e pellegrini cristiani della Chiesa copta di Etiopia, tutti inermi, radunati nel monastero di Debra Libanos.

Storie terribili, che per lungo tempo hanno trovato poco spazio nel dibattito storiografico italiano, ma che Ian Campbell riscostruisce con precisione e anche commozione, senza fare sconti a nessuno, soprattutto a inglesi e francesi che, pur presenti in Africa e molto più forti degli italiani, non fecero nulla per impedire le stragi e il durissimo dominio che seguì quei giorni sanguinosi. Un dominio che nella sua durezza, come ben documenta il libro, si inseriva nella tradizione piuttosto brutale del colonialismo italiano, come avevano già dimostrato nei decenni precedenti le repressioni di ogni tipo di opposizione in Libia e Somalia.

Alla fine, emerge l'immagine di un'Italia, sia pre-fascista, sia fascista, intrisa di militarismo, razzismo ed educata al culto della superiorità dell’uomo bianco. Un'Italia che avrebbe poi dato sfogo alla sua brutalità durante le occupazioni operazioni militari in Albania, Grecia e Jugoslavia durante il Secondo conflitto mondiale.

Per Campbell gli eccidi etiopi furono anche l'anticipazione delle pratiche di pulizia etnica operate dai nazisti in molti Paesi europei occupati, soprattutto in Polonia, Ucraina e Paesi baltici. Di tutte le tesi presentate nel libro questa ci pare la più forzata e quella più generica nelle sue argomentazioni perché per quanto atroce il colonialismo fu cosa ben diversa dal nazismo. Ma questo non toglie nulla alla bontà del saggio di Campbell e non sgrava neppure di un grammo il peso della vergogna italiana per quanto accaduto in Etiopia. Una vergogna ingigantita dal fatto che nessun nostro connazionale è stato mai condannato, anzi neppure mai messo sotto processo per quanto accaduto in quei giorni brutali.
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