In Barbagia, là dove il Supramonte si piega in un dedalo di vallate, Orgosolo appare come un racconto inciso nella pietra. È un paese che non si lascia osservare da fuori: bisogna attraversarlo, respirarlo, decifrarlo. Le sue strade sembrano custodire un lessico di colori e segni che narrano la sua storia.

Le facciate delle case, le piazze, i vicoli più remoti, le pietre ospitano oltre duecento murales che compongono una cronaca collettiva, stratificata nel tempo. Non nascono per decorare ma per testimoniare: parlano di politica e cultura, di giustizia e di dissenso, di vita pastorale e di resistenza. Raccontano il secolo scorso attraverso le voci della comunità, intrecciando episodi di storia locale e frammenti di memoria universale.

Il paese, oggi, conta poco più di quattromila abitanti, ma i suoi muri fanno da ambasciatori nel mondo intero: il nome di Orgosolo è ormai sinonimo di un’arte civile che è diventata paesaggio.

La prima ribalta, però, arrivò per motivi ben diversi. Alla fine dell’Ottocento, Orgosolo divenne simbolo di un banditismo che non era tanto delitto quanto protesta, una risposta aspra alle ingiustizie e all’isolamento. Il regista Vittorio De Seta ne colse la sostanza più vera nel film Banditi a Orgosolo del 1961, dove la lotta per la terra — espropriata dallo Stato — diventa metafora di un destino collettivo: la tensione fra dignità e marginalità, fra la legge della montagna e quella degli uomini. Proprio pochi anni dopo, nel 1969 gli orgolesi sono stati protagonisti della mobilitazione chiamata Pratobello: avevano impedito che a pochi chilometri dal paese venisse installato un poligono militare.

Negli anni successivi, quel terreno di ribellione si è trasformato in fermento culturale. Dalle scritte di protesta è nato un linguaggio visivo che unisce arte e coscienza, memoria e partecipazione. Pittori locali e artisti venuti da lontano hanno così iniziato a lasciare segni sulle pareti, finché l’intero paese si trasformato in un museo a cielo aperto, un archivio visivo della storia popolare di Orgosolo.

Le tinte vive, le figure essenziali, i richiami simbolici conferiscono ai murales un’intensità quasi liturgica: chi cammina per le stradine ha la sensazione di entrare in un testo aperto, scritto a più mani e mai davvero concluso.

Poi c’è il canto a Tenore, dichiarato patrimonio immateriale dell’Umanità dall’Unesco, la più autentica espressione musicale barbaricina. A Orgosolo incontrare quattro voci maschili — oche, bassu, contra e mesu oche — che si fondono in armonie arcaiche è facile e ascoltarla tra i vicoli del paese significa sentire la montagna parlare.

Anche la tradizione femminile si tramanda attraverso gesti precisi, antichi, rituali. Su lionzu — il fazzoletto di seta e zafferano che incornicia il viso delle donne nei giorni solenni — è un capolavoro d’artigianato e di identità. La seta si ottiene dal baco allevato in paese, mentre lo zafferano, che dona alla trama il colore caldo dell’oro, tinge il tessuto con lentezza e pazienza.

Le feste scandiscono ancora il ritmo dell’anno: a Ferragosto si corre sa Vardia ’e mes’Austu, una sfrenata corsa di cavalli che incendia la piazza e celebra il coraggio. A ottobre, Gustos e Nuscos — tappa orgosolese di Autunno in Barbagia — riempie le strade di profumi di purpuzza e vino, di pani rituali e formaggi stagionati.

Orgosolo si distende a circa seicento metri d’altitudine, sulle pendici del Monte Lisorgoni, propaggine del massiccio del Gennargentu. Dall’alto domina le vallate attraversate dal Cedrino e guarda verso un orizzonte di pietra: il Supramonte di Orgosolo, paesaggio di una bellezza ruvida e incontaminata. Qui la natura conserva ancora la propria intransigenza: gole profonde, grotte carsiche, tacchi calcarei che si levano verticali.

Tra i rilievi più noti, il Monte Novo San Giovanni (1300 metri) e il Monte Fumai; più a valle, la dolina di Su Suercone, una voragine di duecento metri di profondità e quattrocento di diametro, dove il terreno sembra inghiottire la luce. E ancora il canyon di Gorroppu, tra i più profondi d’Europa, con pareti che si innalzano per oltre quattrocentocinquanta metri, percorribile in parte lungo sentieri che sembrano corridoi scavati dal vento.

Nelle foreste di Sas Baddes sopravvive una rarissima lecceta primaria, dove convivono tassi secolari, ginepri e agrifogli. In quella di Montes si incontrano ancora i pinnettos, capanne di pietra e rami dove un tempo i pastori trascorrevano le stagioni in montagna. E ovunque affiorano tracce di epoche remote: domus de Janas, tombe di Giganti, nuraghi come quelli di Su Calavriche e Mereu. E, sul Monte Su Biu, le aquile reali trovano ancora rifugio: un volo alto, solitario, che sembra contenere l’intero spirito del luogo.

© Riproduzione riservata