Il 31 dicembre, in Sardegna, è stato un confine invisibile, una notte carica di presagi, riti minimi e parole sussurrate alla sorte. Mentre il resto d’Europa imparava a festeggiare l’anno nuovo a gennaio, l’Isola seguiva un tempo tutto suo, ostinato e antico, che cominciava altrove e parlava un’altra lingua.

Un Capodanno fatto di chicchi d’orzo, pane simbolico, filastrocche sacre e bambini che bussavano alle porte per augurare un buon anno nuovo: “Bonus principius e mellus finis”. Tradizioni che oggi sopravvivono ai margini della memoria, come brace sotto la cenere.

Tra le innumerevoli usanze popolari che scandiscono il calendario sardo, il Capodanno occupa un posto speciale: non per lo sfarzo, ma per la densità simbolica. Un tempo, sull’Isola, l’anno non iniziava a gennaio. Iniziava a settembre.

La parola “cabudanni”, che in sardo indica proprio il mese di settembre, deriva dal latino Caput Anni, “inizio dell’anno”. Un’eredità diretta del calendario bizantino che, dal 462 d.C. — quando la Sardegna era sotto dominio bizantino — fissava l’avvio dell’anno a settembre.

Una scansione del tempo legata ai cicli agricoli, alla terra, alla fine dei raccolti e all’inizio di una nuova attesa.

Questa consuetudine resistette fino al XVI secolo, molto oltre l’adozione del calendario gregoriano nel resto d’Europa.

Nella notte di San Silvestro risuonavano filastrocche benauguranti, recitate dai bambini ma anche dagli adulti, come formule capaci di orientare il destino.

“A sa noa!” (ci vediamo nel nuovo anno), era l’augurio lanciato come un ponte. La risposta, “Deus bollat!”, affidava tutto a una volontà più alta.

Negli ultimi giorni di dicembre prendevano vita anche riti oggi quasi scomparsi, come su candelarzu e sa candelaria. In alcuni paesi dell’interno, come Orgosolo, Benetutti, ma anche Esterzili, Aritzo e Gadoni e tanti altri, i bambini andavano di casa in casa bussando alle porte, qui ricevevano dolci e cibi tradizionali, frutta secca. Era uno scambio rituale: auguri in cambio di abbondanza, comunità in cambio di protezione.

E poi c’era Su giogu ’e sos olzoso che trasformava la notte di San Silvestro in un tribunale silenzioso dei sentimenti. Due chicchi d’orzo, una bacinella d’acqua, un mulinello creato con un dito. Ai chicchi venivano dati nomi, identità, speranze. Se restavano vicini, l’affetto era destinato a nascere. Se si allontanavano, la risposta era chiara.

Il Capodanno sardo passava anche dal forno: Su cocone, era il pane dorato dallo zafferano; sa tunda, pagnotta circolare come il ciclo dell’anno; su cabude, focaccia dolce; sa rughitta, a forma di croce. Ogni forma aveva un significato e ogni impasto esprimeva un augurio.

A chiudere il cerchio c’era su trigu cotu: grano cotto. «Saludi e trigu» (salute e grano) si pronunciava per augurare un anno ricco di salute e soldi. Questa tradizione è tipica del Sulcis-Iglesiente, in cui il grano cotto si serve a colazione con il latte, ma anche di Campidano e Marmilla, dov’è diffusa la versione con la saba (il mosto cotto). Si tratta di un piatto povero solo in apparenza.

Oggi purtroppo molte di queste usanze sopravvivono a fatica, relegate a poche comunità o alla memoria degli anziani.

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