Nel cuore più aspro della Barbagia di Seulo, si erge una delle vicende più oscure e affascinanti dell’Ottocento sardo: quella della famiglia Capece di Esterzili. Nobili per stirpe, temuti per potere, e infine travolti da una tragedia.

Era la notte del Venerdì Santo del 1840 a spezzare il fragile equilibrio costruito intorno alla casa Capece nel centro storico esterzilese. La scena è quella di una bardana, termine sardo che indica un assalto armato notturno. Venerdì Santo appunto. Il tempo si ferma, come ogni anno, davanti al lutto di Cristo. Ma a Esterzili, quella notte tra il 10 e l’11 aprile 1840, non era stato Dio a morire, ma un uomo, la sua serva e la pace di un’intera comunità.

I ventuno cavalieri erano arrivati nel cuore della notte, silenziosi come lupi ma travestiti da soldati del Re. Gridavano ordini militari. «Fermi al Re! Fate fuoco!» e bastò quell’urlo per far crollare la soglia tra l’inganno e il massacro.

Il loro obiettivo era la casa del giudice don Salvatore Capèce, uomo di legge, di lignaggio e di nemici. Viveva con la moglie donna Peppa Muntoni e la giovane figlia Francesca, donna Ciccia, in un palazzotto nel centro storico del paese barbaricino. I suoi assassini, ironia atroce, portavano lo stesso sangue nelle vene.

Non era stata un’irruzione improvvisata, ma un vero e proprio spettacolo teatrale, feroce e aggressivo. Mentre alcuni sfondavano a colpi di scure il portale, altri sbucavano come ombre armate nei vicoli, e altri ancora salivano sulle colline a far da sentinelle. Un paese intero fu preso in ostaggio da un’idea violenta e da una vendetta lucida.

Don Salvatore si svegliò, capì e prese il fucile. Sparò da una finestrella, come si spara da una nave che affonda. Ma la marea era troppo alta. Ferito a morte, ebbe ancora il tempo — l’istinto animale — di denunciare il nome del suo assassino: Giulio Tolu. Suo parente. Suo sangue.

Sua figlia donna Ciccia accorse in camicia, correndo verso il corpo esanime del padre. Le mani ancora tremanti, era stata bloccata da due uomini armati. La costrinsero a rivelare dove fosse nascosto il tesoro di famiglia. Anche lei nell’oscurità di un corridoio devastato aveva riconosciuto in quegli uomini i suoi cugini: Giulio e Salvatore Tolu.

La cassa di legno rosso venne ritrovata e aperta: quattrocento scudi d’argento, duemila monete d’oro, gioielli, argenteria, vestiti, biancheria profumata, persino le porcellane. Ogni simbolo del vivere civile fu rovesciato, profanato, rubato.

I briganti lasciarono Esterzili come erano arrivati: armati, urlanti, organizzati. Spararono colpi in aria, per proteggere la ritirata come in una guerra vera. Si racconta che si erano fermati alla chiesetta di Santa Maria, prima di sparire tra le creste di Nualèi.

Il mattino seguente arrivarono anche le voci dei testimoni: Agostina Usai, serva superstite. Donna Ciccia, che parlò. E con loro, cinque uomini del paese, che riconobbero la voce, la barba finta, la luce della candela di cera che illuminava la scena del furto come in una sacra rappresentazione macabra. E subito il nome dei Tolu non era più un cognome. Era una sentenza.

Ma quella denuncia, come il tempo avrebbe rivelato, non era che l’inizio di un colossale errore giudiziario. I due Tolu – nobili decaduti di Mamoiada e Seui – erano stati arrestati, processati e condannati a morte. Don Giulio venne decapitato in piazza del Carmine a Cagliari, ultima esecuzione col rito militare in Sardegna. Don Salvatore Tolu fu impiccato a Esterzili, in località Taccu, nel luogo oggi occupato dal nuovo rione del paese.

Due anni dopo, la verità emerse: i veri colpevoli confessarono, la refurtiva fu recuperata e la tragedia divenne scandalo. Ma intanto, gli innocenti erano stati giustiziati. E donna Ciccia, accusatrice principale, perse tutto: beni, rispetto, casa. Era stata cacciata dalla comunità e da lì iniziò così la sua lenta discesa nella leggenda.

I Capece erano arrivati a Esterzili da Tempio all’inizio dell’Ottocento, forti di un nome blasonato e di legami con l’alta gerarchia ecclesiastica: don Salvatore era fratello del vescovo di Tempio, monsignor Diego Capece. Ma nella Barbagia interna, la loro fama cambiò in fretta. I documenti giudiziari raccontano di processi per usura, soprusi e arricchimenti indebitamente ottenuti.

«Don Salvatore e sua figlia donna Francesca sono pubblicamente ritenuti… persone prepotenti», si legge in una delle numerose querele. Le accuse piovono da contadini ridotti alla fame, da domestiche umiliate, da vicini soggiogati da debiti impossibili da estinguere. Eppure, in qualche anfratto della memoria popolare, resiste anche un’immagine diversa del patriarca Capece: quella di un nobile che, almeno in gioventù, ospitava i poveri in casa e partecipava alle rivolte contro i balzelli feudali.

Donna Ciccia, invece, è dipinta con colori cupi e mutevoli. Donna d’intelligenza acuta e feroce, presentava se stessa come vittima devota: «Feci voto di condono per la guarigione del mio bambino», disse in un processo, giustificando le sue azioni come mosse da compassione. Ma le sentenze la smentivano puntualmente. Lei e suo padre vennero condannati a risarcimenti e spese legali.

Dopo la bardana la vita di donna Francesca si trasformò in una lunga penitenza pubblica. Si racconta che vagò di paese in paese come mendicante, a volte come prostituta, spesso disprezzata e insultata. Una leggenda narra che avesse partorito in segreto una figlia illegittima, abbandonata sulla soglia della chiesa di San Valentino a Sadali.

Si dice che morì nel 1899, annegata durante un’alluvione nel sottano dove trovava riparo a Gergei. Aveva 90 anni. La fine di una donna che aveva visto da vicino il potere e il patibolo, la ricchezza e la rovina.

Oggi della casata Capece non resta che polvere di memoria e qualche atto giudiziario. Lo stemma nobiliare è scomparso, i beni dissolti. Solo i resti umani ritrovati sotto la chiesa di San Michele, durante lavori negli anni Duemila, potrebbero raccontare ancora qualcosa: forse sono proprio quelli dei Capece, inginocchiati per decenni nella cappella di Sant’Antonio, tra i banchi dei “nobili”, a chiedere il perdono.

© Riproduzione riservata