Nel cuore dell’anima pastorale della Sardegna risuona ancora oggi un soffio leggero, quasi primordiale. È il suono di uno strumento semplice ma intriso di storia: su pipiolu, su sulittu o su pipaiolu, a seconda delle terre che lo vedono nascere.

A sentirlo, sembra quasi che il vento stesso si sia messo a raccontare storie: di pascoli solitari, di bambini scalzi tra i muretti a secco, di sere al tramonto sotto cieli larghi e silenziosi. È il flauto del pastore, su zufulu, e la sua voce attraversa i secoli con la naturalezza con cui l’erba cresce tra le rocce.

Non c’è mito fondativo che non custodisca uno zufolo, e non c’è pastore – un tempo – che non se ne sia fabbricato uno con le proprie mani.

In Sardegna, questo strumento è stato gioco e rito, passatempo e preghiera. Oggetto umile, sì, ma capace di racchiudere una complessità sonora che racconta molto più di quanto si creda.

Lo si chiama pipiolu o pipiriolu nel Logudoro e nel Campidano, sulittu nella Marmilla, pipaiolu in Barbagia, solittu ad Atzara. Nomi diversi per uno stesso gesto musicale: quello di soffiare nella canna stagionata, di muovere le dita con sapienza antica, di produrre una melodia capace di incantare. Ogni variante territoriale porta con sé una struttura diversa, una diversa tonalità, una differente sensibilità artigianale.

E se le launeddas sono considerate il suono sacro, polifonico e complesso dell’identità sarda, il flauto del pastore è la sua voce quotidiana: più diretta, più personale, ma altrettanto profondamente radicata nella cultura dell’Isola. È l’eco di un tempo che pare sospeso, quando l’infanzia si intrecciava con la manualità, e il sapere si trasmetteva più con gli occhi che con le parole.

Il fascino de su pipiolu non si esaurisce nella sua sonorità. Dietro c’è un sapere artigiano minuzioso, una conoscenza che si affina con la pratica, la pazienza e l’intimità con la natura. La canna, scelta e tagliata d’inverno, stagionata per anni, diventa la materia prima di uno strumento che è tanto fragile quanto duraturo. Il becco può essere rifinito con una zeppa di sughero o di legno stagionato, mentre il corpo viene inciso, pirografato, dipinto o perfino rivestito con pelle di biscia d’acqua, a seconda dell’estro del costruttore.

Ogni zona dà vita al proprio modello. Nel Logudoro, ad esempio, su pipiolu ha quattro fori (tre anteriori e uno posteriore) e una lunghezza che non supera i 22 centimetri. Nella Marmilla, su sulittu raggiunge anche i 30 centimetri e si distingue per la presenza di un quinto foro, mentre in Barbagia, su pipaiolu abbandona il foro posteriore e opta per una diversa inclinazione del becco e una zeppa rigorosamente in sughero. Sono sfumature minime, ma fondamentali, perché ogni modifica cambia radicalmente la colonna d’aria vibrante che genera il suono.

Da un punto di vista musicale, il flauto pastorale sardo offre scale diatoniche particolari: successioni di toni e semitoni che variano leggermente tra le versioni. Ridurlo però a una semplice descrizione organologica sarebbe un errore. Questo strumento è anche e soprattutto un gioco sardo, come scriveva Giovanni Dore nel suo pionieristico studio Gli strumenti della musica popolare della Sardegna (1976). «Un gioco, sì, ma profondamente serio. Perché con quel gioco i bambini imparavano a costruire, a suonare, a osservare il mondo attraverso la lente della tradizione».

Ciò che rende straordinario questo strumento, in fondo, è la sua relazione profonda con la terra e con l’uomo. Non nasce in fabbrica, ma nel silenzio di un pomeriggio d’inverno, tra le mani rugose di un anziano o quelle curiose di un bambino. Non si studia in conservatorio, ma si apprende osservando, ascoltando, ripetendo.

E non suona nelle grandi sale da concerto, ma tra i muretti a secco, nelle feste di paese, nelle pause del lavoro quotidiano. Ogni foro, ogni nodo, ogni impercettibile variazione della canna è frutto di secoli di esperienze stratificate. Ogni sua nota ci ricorda che la bellezza può nascere da un gesto semplice, che la memoria può risiedere in un pezzo di canna, e che, come scriveva l’antropologo Ernesto De Martino: «Le culture non muoiono se c’è qualcuno che continua a ricordarle con amore».

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