Una motivazione «deludente». Così l’avvocato Mauro Trogu valuta il contenuto della sentenza con cui, pochi mesi prima (il 26 gennaio 2024), la Corte d’appello di Roma ha revocato la condanna all’ergastolo inflitta nel 1992 a Beniamino Zuncheddu, assolvendo il pastore (suo assistito) dall’accusa di aver ucciso l’8 gennaio 1991 tre persone nell’ovile Cuile is Coccus sulle montagne tra Sinnai e Burcei: il proprietario Gesuino Fadda, il figlio Giuseppe e il loro aiutante Ignazio Pusceddu.

I dubbi della Corte

Deludente non per il finale, che in effetti è proprio quello sollecitato dal legale e dall’ex procuratrice generale di Cagliari Francesca Nanni nella richiesta di revisione del procedimento originario; ma per quanto affermato nel contenuto dal collegio, che in una settantina pagine sottolinea come la decisione sia arrivata non perché è stata «dimostrata l’assoluta estraneità» dell’imputato ai fatti ma in quanto non è stata raggiunta la certezza «oltre ogni ragionevole dubbio» di un suo coinvolgimento. In sostanza a detta dei giudici capitolini manca la prova che l’ex ergastolano abbia in effetti partecipato al massacro e tuttavia in loro restano vari sospetti su un suo ipotetico ruolo in quella vicenda.

La Corte d'appello di Roma legge la sentenza di assoluzione nel processo di revisione

La memoria

Così Trogu, che sin dal 2017 si batte per dimostrare quanto la sentenza divenuta definitiva del 1992 fosse stata un errore grave, pur avendo raggiunto l’obiettivo principale accende il pc e scrive una memoria ragionata nella quale ripercorre i passaggi della “spiegazione” giuridica relativa all’assoluzione e ne confuta i passaggi ritenuti sbagliati. La gran parte. Per lui Zuncheddu è assolutamente innocente e intende dimostrarlo in ogni sede, anche (eventualmente) facendo ricorso in Cassazione.

Nel documento l’avvocato premette che la sentenza pronunciata a Roma «non è di facile lettura se non si conoscono a fondo tutti gli atti dei due dibattimenti», cioè quello primigenio e l’ultimo appena concluso. Quindi elenca i punti definiti «fondamentali» di entrambi i procedimenti.

Qui ne riportiamo ampi stralci seguendo la divisione in capitoletti pensata originariamente dal difensore, che esordisce sottolineando un punto non più in dubbio: Luigi Pinna, l’uomo miracolosamente scampato all’agguato il cui racconto fu alla base della condanna di Zuncheddu (disse di aver visto in volto l’assassino e di poterlo riconoscere, come poi in effetti fece davanti al pm che indagava e all’investigatore della polizia che seguì le indagini il quale gli mostrò la foto del pastore di Burcei), dalla Corte d’assise d’appello nel 1992 fu «descritto come persona integerrima, di sani principi, che mai avrebbe mentito» nell’indicare il colpevole, scrive Trogu, mentre nel 2024 a Roma viene inquadrato dalla Corte d’appello «come una persona malleabile, pronta a compiacere il prossimo».

Beniamino Zuncheddu e il suo avvocato Mauro Trogu in aula a Roma

Cioè «proprio quel che abbiamo sempre sostenuto io, i miei consulenti e la procuratrice generale Francesca Nanni», oltre che «i difensori di Beniamino nel 1991». Quindi su questo fronte la sentenza «dà ragione alla richiesta di revisione nella valutazione della testimonianza» del superstite, «testimone chiave» che in realtà accusò l’ergastolano «per compiacere il poliziotto».

«Grave errore»

Dunque «si è implicitamente accertato» che «nel 1991 ci fu un grave errore nella valutazione della prova testimoniale a carico». E a distanza di oltre 30 anni per valutare a cosa si può credere e a cosa no del racconto del sopravvissuto è necessario «raccogliere dati oggettivi, altri elementi di prova diversi da quelli che ci propone il testimone ritenuto inaffidabile». Quel che la difesa ha fatto, sostiene Trogu, che coi suoi consulenti ha ricostruito «la scena del delitto» per «dimostrare» cosa davvero Pinna «poteva aver visto» quella notte, quando il killer gli esplose contro due fucilate da distanza ravvicinata, al buio, senza infliggergli il colpo fatale. E cosa aveva potuto vedere la quarta vittima dell’agguato? Praticamente nulla, secondo la difesa. Certamente non il volto del carnefice.

Beniamino Zuncheddu davanti alla cittadella giudiziaria di Roma

Però «purtroppo la Corte d’appello di Roma non ha ritenuto che le nostre consulenze fossero prove nuove», sottolinea Trogu nelle sue riflessioni, aggiungendo la convinzione che si sia «persa un’occasione importante per accertare almeno una parte importante di verità». Del resto nella revisione «non devono essere ammesse solo prove nuove: devono esserlo solo quelle che portano alla riapertura del processo» nel quale, quando accadesse, si applicherebbero «le regole normali». Un esempio su tutti: nel procedimento istruito a Roma «sono stati ascoltati di nuovo tanti testimoni già sentiti all’epoca». E «certo non erano da considerare prove nuove».

Il testimone

Il secondo passaggio si incentra sulla versione di Paolo Melis, pastore al servizio della famiglia Fadda sino a poco prima della strage. Questi rivelò, dopo varie versione contrastanti, di aver assistito a un litigio nel quale un giovane, da lui indicato in Zuncheddu, disse a Giuseppe Fadda, che sparava al bestiame degli allevatori confinanti, “quello che stai facendo alle mie vacche un giorno sarà fatto a te”: questa frase fu tra i pilastri della condanna. Ma anche questo teste è stato ritenuto «totalmente inattendibile» dal collegio romano, che dunque con questa valutazione ribadisce nel 2024 «il grave errore commesso nel 1991 da parte di chi volle invece fare affidamento su una testimonianza così altalenante». Dunque «manca totalmente il movente originario» del triplice delitto.

Più banditi

Terzo punto: la partecipazione di più persone all’eccidio. Nel 1992 si ritenne colpevole il solo Zuncheddu ma il processo di revisione conferma, spiega Trogu, la presenza di altri assassini e, dunque, la correttezza di un doppio passaggio avvenuto nel 2019: la richiesta di «nuove indagini» avanzata dall’avvocato e la loro apertura da parte della Procura di Cagliari, iniziativa quest’ultima «dirimente» perché ha consentito di «acquisire le intercettazioni» dei colloqui tra il superstite e la moglie in auto nel febbraio 2020 alla base poi dell’assoluzione finale.

L’alibi

Quarto: l’alibi dell’imputato, ritenuto prima fallito e poi addirittura falso negli anni Novanta e poco considerato anche nel 2024. Una «svalutazione» che il difensore ritiene poco condivisibile. Perché? Perché «l’alibi serve a dimostrare che l’imputato fosse altrove nel momento in cui il fatto è stato commesso» nel caso vi sia «qualche indizio» che in effetti faccia ipotizzare la sua presenza «sul luogo del delitto in quel momento».

Però, insiste il legale, «in questo caso non vi è nessun elemento di prova, nessun indizio che Beniamino fosse nell’ovile quando sono stati commessi gli omicidi». Non solo: l’alibi «si deve confrontare con una modalità del fatto definita», dunque chiara e certa, situazione invece assente in questo caso in quanto «il testimone oculare è sicuramente inattendibile» e «la tesi originaria che l’assassino abbia agito da solo è stata sconfessata». Quindi «è verosimile pensare che l’azione abbia richiesto una preparazione sicuramente diversa e probabilmente più articolata».

Eppure si continua a sostenere che sia falso il testimone d’alibi (la persona che, nel 1991 e poi ancora nel 2023, ha sostenuto di aver visto Zuncheddu transitare al centro di Burcei sul suo vespino proprio nelle ore della strage).

Gianni Murgia, sequestrato a Dolianova nell'ottobre 1990

Il sequestro

Punto cinque: il collegamento del triplice omicidio col sequestro dell’imprenditore Gianni Murgia avvenuto a Dolianova nell’ottobre 1990, i cui atti processuali «non sono stati ammessi» nella revisione impedendo «di dimostrare l’esistenza di eventuali» legami tra i due episodi. Tuttavia, pur in assenza di un’analisi puntuale in aula tra il rapimento e la mattanza, «la Corte d’appello di Roma ha concluso per l’inesistenza di collegamenti tra i due fatti criminali basandosi sulla testimonianza di uno dei condannati per il sequestro, il quale ha negato» un qualunque legame.

I giudici sostengono che questa persona, avendo scontato interamente la pena, non avrebbe problemi oggi a rivelare tutto e se non lo fa è perché in effetti nulla ha da dire; per Trogu viceversa «è evidente che se emergessero collegamenti» il testimone «rischierebbe di essere chiamato in ballo per quegli omicidi e quindi è sicuramente uno dei soggetti meno attendibili sul punto».

Prove insufficienti

Sesto punto: la conclusione delle motivazioni, l’assoluzione per insufficienza di prove. La parte definita dall’avvocato «più deludente». Al termine del procedimento arriva la revoca della condanna, «il castello di accuse contro Beniamino crolla». Però il collegio «dice “l’assoluzione non è piena perché tu non hai dimostrato la tua totale estraneità ai fatti”. E siccome» il poliziotto che svolse le indagini ribadì «che i suoi informatori anonimi gli dissero che Beniamino aveva partecipato», dovrebbe essere l’imputato «a provare il contrario».

Un ribaltamento dei ruoli, «un ragionamento che contrasta con la nostra Costituzione e con la nostra legge processuale. La Costituzione e la Corte europea per i diritti dell’uomo contemplano tra i diritti civili fondamentali quello della presunzione di innocenza: fino a che la mia responsabilità non è provata, io devo essere considerato innocente. È l’accusa a dover provare la mia colpevolezza, non io a dover provare la mia innocenza. Sembra di essere tornati indietro di 80 anni».

Non solo: «Mi si deve spiegare come Beniamino Zuncheddu possa dimostrare che un informatore mente se la sua identità rimane segreta e quindi non può essere sottoposto all’esame testimoniale e al controesame. Stiamo parlando di regole basilari di diritto e di civiltà giuridica». Infine «nel nostro codice di procedura penale non esiste l’assoluzione semi-piena: l’assoluzione o è piena o è condanna. Quindi quella definizione “assoluzione non piena” è uno schiaffo all’innocenza di Beniamino, la dimostrazione che il nostro Stato non sa riconoscere l’errore e che molti giudici, ancora oggi, preferiscono stare dalla parte della ragion di Stato anziché dei diritti e delle libertà fondamentali dei cittadini».

Burcei attende l'arrivo di Beniamino Zuncheddu

Le forze dell’ordine

Per chiudere, il settimo punto sull’assenza di «biasimo» nei confronti delle «forze dell’ordine. Nessun cenno» nella sentenza «al fatto che la Questura» di Cagliari «abbia tenuto nascosti gli atti dei primi dieci giorni di indagine. Non viene neppure criticato il fatto che il poliziotto» protagonista delle prime indagini «abbia esibito la foto di Beniamino al testimone» prima del riconoscimento ufficiale davanti al pm.

La falsa testimonianza

Passaggio quest’ultimo che ha un seguito: proprio pochi giorni fa, quasi due anni dopo la sentenza, l’ex ispettore della polizia citato da Trogu, la moglie del superstite e un pastore sono finiti sotto accusa per falsa testimonianza, ipotesi legata a quanto da loro stessi dichiarato nel corso del processo di revisione al termine del quale il sostituto procuratore generale ha chiesto alla Corte il rinvio degli atti: i giudici hanno dato seguito alla domanda e la Procura capitolina ha aperto un’indagine chiusa di recente. Atto che prelude alla richiesta di rinvio a giudizio di Mario Uda, Daniela Fadda e Paolo Melis, a meno che i tre sotto accusa riescano a produrre documenti che facciano cambiare idea agli inquirenti.

Il sostituto procuratore generale capitolino Francesco Piantoni nell'aula della Corte d'appello

Uda è finito sotto accusa per aver ribadito a Roma di non aver fatto vedere al sopravvissuto la foto di Beniamino Zuncheddu prima dell’incontro ufficiale col pm (episodio invece confermato dalle alcune intercettazioni ambientali e dallo stesso Pinna in aula); Fadda nel processo di revisione ha confermato che il marito aveva visto e riconosciuto l’assassino (smentita dal marito); Melis paga le contraddizioni nella sua versione in Appello.

La vicenda processuale finisce qui. O forse no: c’è da attendere quest’ultima tranche. E magari anche la richiesta di risarcimento per ingiusta detenzione.

17) Fine

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