Non è la maledizione dello scudetto: non esiste e soprattutto non c’è traccia nella storia della pallacanestro italiana di un male simile. Quella della Dinamo, che ha perso (male) contro Trento la terza partita su cinque in casa, è forse molto più semplicemente la storia di una squadra nata male, probabilmente sopravvalutata, vittima dei propri errori e dei propri limiti ma anche dello stato di confusione in cui si trova un quintetto che è passato da un giorno all’altro da un coach come Sacchetti a uno come Marco Calvani.

I fischi del pubblico (legittimi e civili) sono stati più che mai meritati: funziona così, e il presidente Stefano Sardara (che era e resterà per sempre un “gigante” per quel che ha saputo fare a Sassari dal rischio fallimento allo scudetto) deve farsene una ragione. Ha annunciato l’addio a fine giugno: siamo certi che ci ripenserà, sono state parole dettate dall’amarezza (giustificata) maturata in un periodo nero dopo sei anni di gioie e trionfi. Semmai dovrà pensare a come ricostruire questa Dinamo, che non è la squadra campione e d’Italia perché lo scudetto lo avevano vinto altri giocatori.
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